Il Padre Nostro e il Gloria: la storia tra tradizione e traduzione

Dalla scorsa domenica una serie di cambiamenti ha stravolto la messa dei fedeli. La CEI, infatti, ha deciso di apportare alcune modifiche testuali su alcune preghiere. I cambiamenti più evidenti si trovano nel Padre Nostro e nel Gloria a Dio, che prendono le distanze da ciò che si legge nei Vangeli Sinottici. Un confronto tra le novità e i testi di partenza.

I cristiani si preparano ad affrontare un Natale diverso anche in termini religiosi, perché, proprio pochi giorni prima dall’inizio della settimana dell’Avvento, la CEI ha reso effettivi alcuni interventi sulle preghiere recitate durante la Santa Messa. Dal 29 novembre, infatti, il verso finale del Padre Nostro “Non ci indurre in tentazione” è stato modificato nel nuovo “Non abbandonarci alla tentazione” e quel “di buona volontà” del Gloria a Dio, che adesso verrà sostituito dalla perifrasi “che sono amati dal Signore”.

Tra i fedeli c’è ancora molta confusione: chi è andato a messa per tutta la vita adesso si trova nuovamente ad imparare una nuova formula della preghiera, sostituendo quella vecchia. Ma c’è anche chi non l’ha presa bene, soprattutto dopo la recente dichiarazione di Papa Francesco sull’argomento tabù omosessualità, che è emersa nel documentario del regista russo Evgeny Afineevsky.

La tradizione vuole modificare la traduzione già da un paio di anni: non è, dunque, una scelta di Bergoglio, ma una questione che nasce nel 1988. Proprio in quell’anno fu organizzato un tavolo di lavoro per rivedere la traduzione del 1971. In quel gruppo parteciparono i massimi esperti: furono convocati, infatti, 15 biblisti diretti da tre vescovi che si sono succeduti nel tempo (Costanzo, Egger e Festorazzi). Il vescovo Festorazzi fece intervenire altri 60 biblisti sul caso Padre Nostro. Fu proprio questo Comitato a sottoporre per la prima volta la possibilità di usare il verbo “abbandonare” al posto di “indurre”, ma solo nel 2008 la CEI ha pubblicato nelle sue Bibbie la cosiddetta “nuova traduzione”.

Mentre la CEI ha discusso per più di 30 anni, alcuni Paesi hanno deciso di compiere questo passo indipendentemente dal via libera della Chiesa. Argentina e Francia sono l’esempio lampante. In Argentina è stato trovato un compromesso nel passo “Rimetti a noi i nostri debiti”, in quanto si riteneva il corrispettivo di debitore desueto: oggi la formula adottata anche in altri paesi latini è “Perdona nuestras ofensas”, cioè “rimetti le nostre colpe”. In Francia, invece, a partire dal 3 dicembre del 2017 il versetto incriminato è lo stesso che è stato messo in discussione. Infatti, il “Ne nous soumets pas à la tentation”, ovvero “non ci sottomettere alla tentazione” è diventato “Ne nous laisse pas entrer en tentation”, cioè “non lasciarci entrare in tentazione”.

Il testo di partenza greco (Mt 6,13 e Lc 11,4), su cui si basa tutta la tradizione cristiana, recita “μη εισενεγκης ημας εις πειρασμον”, cioè “Non portarci alla tentazione”. Le parole da cui partire sono εισενεγκης, imperativo aoristo II da εισφερω e πειρασμον, sostantivo di seconda declinazione. Lo stesso verbo, essendo un composto di φερω, ha già in sé il suo significato: condurre, introdurre e portare a. Ma tra i significati, sicuramente, non vi è “abbandonare”, il nuovo significato scelto, che in greco viene espresso con altri verbi, tra cui λειπω.

L’uso del verbo abbandonare, dunque, suona come una stonatura, anche perché, presentandosi come un contrario di “indurre”, ne altera il significato. D’altronde, quale Dio, quale Padre, se incarna l’idea di Bene, potrebbe condurre il proprio figlio verso il male? Sarebbe un controsenso. Ma allo stesso modo, non intervenire sulla traduzione, implicherebbe ammettere ontologicamente una sorta di ambivalenza nell’identità divina: Dio, perciò, incarna il bene e il male, dato che può indurre i propri fedeli alla tentazione? Non mutare la traduzione equiparerebbe a stravolgere la tradizione. A quel punto, la stessa dottrina cristiana sarebbe stata messa in discussione, se avesse ammesso un Dio manicheista.

Per alcuni studiosi, il fulcro del problema sta nella resa della parola tentazione, cioè πειρασμον. Proprio questo vocabolo accoglie anche altre accezioni, tra cui “prova” ed “esperimento”. L’ipotesi che è stata avanzata è l’ipotesi che Dio non voglia mettere alla prova l’uomo per testare la sua fede. Ma anche questa tesi potrebbe essere contraddetta. Nella storia di Giobbe, ad esempio, cui è dedicato un libro della Bibbia, si deduce che Dio permetta a Satana di “sperimentare” con la tentazione la fede del suo più grande seguace.

Con il Gloria al Padre, invece, si torna a tradurre qualcosa che non c’è nel testo di partenza. Il letterale “di buona volontà” (Lc 2,14) espresso con la parola ευδοκια, muta in una relativa che non è presente altrove. I significati di questa parola spaziano fino ad ammettere termini come “favore”, “approvazione” e “piacere”. Buona volontà può ricondurci all’idea di un uomo che ha disposto la fede nel suo animo. A questo punto il ragionamento dovrebbe essere il seguente: se il figlio è credente, ne consegue che è amato dal Signore, anche se nell’atmosfera cristiana l’amore è una certezza a priori e non conseguenziale.

Maria Regina Betti

Laureanda in Lettere Classiche, appassionata di luci rosse e di rullini, si dedica alla fotografia digitale, analogica e istantanea.

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Maria Regina Betti

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