Leggenda narra che, ancora oggi, quando in cielo appare la luna piena, i pescatori possano sentire il lamento di una donna risuonare nel silenzio delle notti girgentine.
Chi non conosce le drammatiche vicende dell’amore sventurato di Romeo e Giulietta, ostacolato dalle famiglie ma suggellato da un patto di morte? Senza scomodare Shakespeare, le narrazioni popolari, anche quelle siciliane, sono costellate da storie analoghe di amori ostacolati ma eterni, che, ancora oggi, affascinano per la loro intensità e il loro romanticismo.
In provincia di Agrigento, nei pressi della suggestiva Scala dei Turchi a Realmonte, si raccontano, ad esempio, le vicende d’amore di due sfortunati giovani e di un padre intransigente e borioso, nemico dei veri sentimenti e devoto solo alla ricchezza materiale. Parallelamente alla storia catanese dello scoglio degli eterni amanti, anche la leggenda girgentina è legata a due formazioni rocciose, conosciute in dialetto come “u zitu e a zita”, che emergono dal mare di Realmonte e che sarebbero eterne testimoni di un amore tragico, eppure incorruttibile dal tempo e dalla cattiveria umana.
Nei pressi della maestosa Scala dei Turchi, leggenda narra che vivesse una bella e giovane ragazza, Rosa, figlia del signore di “Muntiriali”, denominazione dialettale dell’attuale Realmonte, in provincia di Agrigento. Un giorno, mentre era di ritorno da una delle sue consuete passeggiate in compagnia della nutrice, scorse un uomo aitante e attraente, un possente ragazzo che trasportava sulle spalle pesanti sacchi pieni di fave. Come accade frequentemente nei racconti popolari, se ne innamorò subito e perdutamente.
A dire il vero, anche Peppe, questo il nome del ragazzo, non disdegnava affatto la graziosa Rosa e, anzi, l’amava anch’egli con grande trasporto. Sicura del suo sentimento, e incoraggiata anche dalla reciprocità del suo affetto, la fanciulla scelse di affrontare il padre e confessargli il suo attaccamento verso quell’uomo di umili origini. Non sorprende, però, che, altezzoso qual era, il padre non soltanto rifiutò di concedere la sua benedizione a quell’unione, ma minacciò anche la figlia di rinchiuderla nel convento delle Suore Orsoline di Agrigento.
Rosa, per nulla intimorita, continuò a incontrare di nascosto il suo bell’innamorato, eppure, ogni volta che erano costretti a separarsi, la ragazza si lasciava cadere nello sconforto. Il padre, notando come l’aspetto della fanciulla fosse sempre più sciupato e depresso, fece arrivare un noto medico perché la visitasse. Quest’ultimo non poté che appurare come la ragazza fosse in piena salute fisica, prescrivendole soltanto delle lunghe passeggiate ristoratrici.
Benché accompagnata sempre dalla balia, fedele al padrone e concorde con la sua riluttanza ad accettare quell’amore sconveniente, Rosa trovava sempre il modo di incontrare il suo Peppe. Un giorno, tuttavia, il padre scoprì tutto e annunciò alla figlia che presto sarebbe stata spedita presso un lontano monastero palermitano.
Sfogatasi con il suo amato, Rosa e Peppe elaborarono un tragico piano. Se la vita aveva deciso di separarli per sempre, allora sarebbe stata la morte a unirli. Datisi appuntamento a notte fonda, i due giovani amanti scelsero di buttarsi insieme dalla punta di Monte Russello, mettendo fine per sempre alle loro esistenze.
Appena qualche mese dopo la loro tragica dipartita, la leggenda vuole che, proprio laddove Rosa e Peppe si erano gettati, spuntarono due scogli. Come per volere di un sortilegio, quindi, quegli enormi massi, legati l’uno all’altro da una sottile lingua di roccia, si ersero a testimoni perpetui di quell’amore sfortunato ma indissolubile.
Si narra, inoltre, che, nelle notti di luna piena, i pescatori che si trovino a passare dalle parti della Rocca Guggiarda, conosciuta dai locali appunto come “u zitu e a zita”, possano udire il canto lamentoso di una donna. Le voci popolari vogliono che questa voce appartenga proprio a Rosa, la quale, per l’eternità, intoni una litania in memoria del suo sfortunato destino e di quell’unione impossibile eppure tanto agognata.
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