La pandemia ed alcuni episodi di razzismo fanno leva su un forte sentimento di ostilità verso il “diverso”, “l’altro” che viene additato come capo espiatorio. Tale situazione si traduce in un linguaggio diffamante e dissacratorio nei confronti di alcune comunità.
La situazione pandemica mondiale e gli ultimi avvenimenti legati ad episodi di razzismo, hanno – e stanno- facendo spazio ad un linguaggio dissacratorio e ghettizzante, che pian piano si sta traducendo in un atteggiamento di omertà linguistica, in cui si accetta la parola dissacratoria tout court senza chiedersi il significato. Siamo di fronte ad una situazione di incertezza linguistica: la ricerca di un capo espiatorio può tradursi in odio verso “l’altro”?
Due le epidemie che stanno lacerando il mondo: da una parte il Coronavirus che inizia ad uccidere “fisicamente”, ma che colpisce anche l’anima con la possibilità di generare problemi psicologici; dall’altra il virus razzista che sta “soffocando” l’umanità, partendo dall’ideologia per terminare con l’annientamento “fisico” dell’essere umano, dell’altro tout court.
È proprio su questo che dobbiamo porre la nostra attenzione: entrambe le epidemie stanno uccidendo la nostra società, la stanno massacrando, lacerando. Del resto, anche il dramma del coronavirus che ha provocato-e sta provocando- milioni di morti è stato trasformato in una caccia all’altro, al diverso. L’altro viene rappresentato come lo straniero da combattere, da schiacciare e limitare. Non importano le motivazioni scientifiche, la fratellanza, è importante trovare un capo espiatorio.
Si tratta, dunque, di assuefazione della paura dell’altro: il diverso, ciò che non conosciamo, diventa a priori colpevole di tutto e nostro peggior nemico.
Questa situazione degenera ancora di più se mettiamo in rilievo l’uso del linguaggio dell’odio e dell’intolleranza propinato quotidianamente dai media e dai social. Il “non respiro” (“I can’t breathe”) pronunciate prima di morire da Georges Floyd, diventa il simbolo del movimento Black lives matter in reazione ad un clima d’intolleranza, e ad un clima “soffocante”.
All’inizio dell’epidemia, l’etichetta del “virus cinese” messa da Donald Trump ha accentuato stereotipi e derisioni di ogni tipo, soprattutto nei confronti della comunità cinese. Non a caso, la sua ultima affermazione: il Presidente americano ha definito il Covid-19 “Chinavirus”, attribuendo un’identità nazionale al virus.
Si noti, per esempio, la diserzione dei ristoranti cinesi quando cominciarono ad uscire fuori i primi casi di coronavirus a Wuhan. Questo testimonia come lo stereotipo vince, come il linguaggio dissacratorio e stereotipato traduca l’odio e l’intolleranza di un mondo in briciole.
L’odio e l’intolleranza si intersecano in una nube di populismo, di sfruttamento dell’altro. Si tratta di un’abitudine alla parola dissacratoria, all’omertà linguistica che sfrutta il capo espiatorio di turno, come nel caso del “virus cinese” di stampo trumpiano.
Proprio il caso del virus ha causato non pochi problemi all’infiammazione della parola odio nella vita di tutti i giorni. Come accennavamo, il cosiddetto “virus cinese” ha provocato dei problemi alla comunità cinese, con attacchi e problemi di sinofobia che lasciano l’amaro in bocca.
Non a caso, all’inizio di Febbraio un ragazzo italo-cinese, Massimiliano, ha deciso di fare un flashmob a Firenze. “Io non sono un virus, sono un essere umano, liberami dal pregiudizio– tuona il ragazzo – in questo mondo siamo tutti uguali e soprattutto compagni dello stesso viaggio chiamato Vita”.
Più recentemente, invece, ci siamo trovati di fronte ad una nuova ondata di odio verso i migranti, perché sarebbero “gli altri” a portare il virus a casa nostra. L’odio si declina in un atteggiamento ostile, becero e privo di attaccamento alla vita che si traduce in un linguaggio dissacratorio, diffamante e privo di affetto per la vita.
Siamo bombardati dalle notizie che riguardano il coronavirus e si sente il bisogno di attaccare qualcuno, di mandare qualcuno al macello, di un capo espiatorio che ci fa andare a letto tranquilli, perché abbiamo trovato il colpevole a cui addossare le colpe per tutto.
Dopo aver risolto così facilmente l’enigma del nostro giallo da due soldi la domanda è: perché sentiamo la necessità di addossare le colpe a qualcuno, di trovare un capo espiatorio? Grandi analisti e titoloni di giornali gridavano al “saremo tutti migliori” in riferimento al periodo successivo al lockdown: l’urlo sembra diventato un grido muto.
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