Le restrizioni per contenere la diffusione del Coronavirus, per molte donne vittime di violenza, possono rivelarsi una vera e propria prigionia. Salute delle donne in pericolo a più livelli: a rischio anche il diritto all'aborto.
C’è chi lo definisce “effetto secondario” del Covid-19 e chi parla di “emergenza nell’emergenza”. Fatto sta che non sempre, e non per tutti, restare tra le proprie mura vuol dire sentirsi al sicuro. A seguito delle restrizioni legate all’emergenza sanitaria in corso, milioni di donne, vittime di violenza domestica, si trovano in queste settimane recluse e senza vie di fuga, nelle mani di mariti e di compagni violenti. Donne che, fino a ieri, avevano i mezzi per chiedere aiuto, oggi rischiano di non potere più accendere il cellulare. In un’Italia dove l’81,2% dei femminicidi, nel 2019, è avvenuto all’interno della famiglia (dati Telefono Rosa), centri antiviolenza e movimenti femministi lanciano l’allarme.
LiveUnict ha raccolto alcuni dati e ne ha parlato con il centro antiviolenza Thamaia, l’unico nel Catanese – stando alla lista pubblicata dal Dipartimento Famiglia della Regione Siciliana – iscritto all’albo regionale e uno dei quattro in Sicilia (assieme a Palermo, Messina e Piazza Armerina) ad aderire all’associazione nazionale D.i.Re, donne in rete contro la violenza. Come molti centri antiviolenza, anche Thamaia denuncia la mancanza di finanziamenti pubblici stabili e la totale indifferenza delle istituzioni nei confronti di luoghi insostituibili per la salute delle donne. Un’indifferenza grave, che cozza con quanto riportato sul sito del Ministero della Salute, il quale riconosce i servizi dei CAV come “strumentali alla salute o altri fondamentali diritti alla persona”.
La coabitazione obbligatoria può diventare un vero e pericolo per tutte quelle donne che combattono già quotidianamente contro un partner violento. A confermarlo sono i dati che provengono dalla Cina, dove alcune organizzazioni non governative sostengono che l’epidemia abbia avuto un enorme impatto sulla violenza domestica. Dal 6 marzo 2020, solo nella provincia di Hubei, il numero di casi di violenza registrati è salito a oltre trecento. A febbraio, invece, il numero di casi è raddoppiato rispetto allo scorso anno. Cosa ci aspetta in Italia, dove l’attenzione del governo nei confronti delle questioni di genere è già bassa?
“L’isolamento è una condizione – spiega Anna Agosta, presidente del centro antiviolenza Thamaia di Catania, a LiveUnict – che l’uomo maltrattante cerca di creare già in situazioni di normalità. Le donne che subiscono violenza sono isolate dalla propria rete familiare, dalla propria rete amicale, così da non potersi confrontare e non poter parlare del problema con gli altri. Quindi immaginiamoci adesso a dover condividere h24 lo spazio fisico della casa con il proprio maltrattante, senza la possibilità di avere vie di fuga che possono essere accompagnare i bambini a scuola, fare la spesa, andare al lavoro o andare a fare una passeggiata”.
Proprio per questo motivo, i centri antiviolenza di tutta Italia appartenenti all’Associazione Nazionale D.i.Re, hanno avviato, in questi giorni, una serie di campagne informative molto forti. A dispetto delle difficoltà e dell’indifferenza generale, l’obiettivo è di far sapere alle donne che non sono sole. Sebbene, infatti, molti centri abbiano dovuto interrompere l’accoglienza fisica per via di alcuni decreti ministeriali e per l’impossibilità di applicare le corrette misure anti contagio, la maggior parte dei servizi resta attiva. A livello nazionale, è stato rilanciato anche il numero antiviolenza e stalking 1522, attivo 24 ore su 24 e completamente gratuito.
“La nostra strategia – continua Agosta – è, al momento, quella di informare quante più donne possibili del fatto che i centri antiviolenza sono aperti. Molte pensano che siano chiusi, ma continuiamo a fare colloqui telefonici e li programmiamo per i casi che hanno bisogno di maggiore supporto. Anche le consulenze legali sono disponibili telefonicamente. Per le emergenze assolute ovviamente invitiamo a chiamare le forze dell’ordine, le uniche che possono fare interventi tempestivi. Le colleghe di Milano stanno facendo inoltre una campagna molto forte, dando dei suggerimenti a chi è in difficoltà: chiamare quando si va a fare la spesa, quando si va a buttare la spazzatura e così via”.
Il dato più preoccupante, da quando l’emergenza Covid-19 è iniziata, è tuttavia il calo delle telefonate. Un calo drastico, iniziato già con la chiusura delle scuole e con l’aggravarsi del lavoro di cura da sempre affidato alle donne. Man mano che le restrizioni si sono aggravate, fa sapere il centro antiviolenza Thamaia, il telefono non ha quasi più squillato. A Catania si è registrato un calo di oltre il 60% delle chiamate: un dato in linea con quello nazionale. “È un trend che, da Nord a Sud, sta caratterizzando questa fase – conferma la presidente –. Questo vuol dire che le donne non hanno spazio di libertà di fare una telefonata, probabilmente perché potrebbe metterle in pericolo, perché sono soggette a maggiore controllo”.
A questo, si aggiunge anche l’impossibilità per le donne di allontanarsi da casa, nel caso in cui se ne presenti la necessità. Essere inserite in una casa rifugio, in questo momento, potrebbe infatti rivelarsi pericoloso in termini di contagio. Secondo i dati della prima indagine sui servizi offerti alle donne vittime di violenza – condotta nel 2019 dall’Istat e in collaborazione con il dipartimento per le Pari opportunità e il consiglio nazionale delle ricerche – le case rifugio in Sicilia sono in tutto 11 (quasi il 5% delle case rifugio in tutta Italia) e poco attrezzate. Senza spazi per la quarantena, accogliere ora nuove donne è impossibile. “Per questo – spiega Agosta – chiediamo che, anziché far spostare la donna come avviene di solito nella fase cautelare, siano i maltrattanti a essere messi fuori di casa. A Trento, ad esempio, si stanno già muovendo in questo senso”.
Come sottolinea la presidente di Thamaia, siamo di fronte a una situazione che mette in pericolo la salute delle donne a più livelli. A rischio anche il diritto all’aborto. Nonostante il Ministero della Salute abbia più volte ribadito che l’interruzione di gravidanza è una prestazione non differibile, nei fatti abortire si sta rivelando più difficile del previsto. Ignorata anche la richiesta all’Aifa, da parte di Pro-choice e altre associazioni, di introdurre il regime ambulatoriale con assunzione di farmaci abortivi direttamente a casa e quella di attivare procedure da remoto, come sta già avvenendo in Francia e nel Regno Unito. “Al di là della pandemia – conclude Agosta –, questo momento ha per le donne delle conseguenze gravissime. Ci auguriamo un intervento tempestivo da parte delle istituzioni”.
Dal Ministero delle Salute, però, nessuna nuova disposizione o linea guida. Nei giorni scorsi, solo la ministra delle Pari Opportunità e della Famiglia, Elena Bonetti, ha invitato le donne in pericolo a uscire di casa per chiedere aiuto, senza preoccuparsi dell’autocertificazione. “È importante che le donne sappiano – ha dichiarato in un’intervista a La Repubblica – che possono uscire, dichiarando che lo fanno per stato di necessità e mantenendo la riservatezza sulla causa specifica senza dichiarare altro motivo. È vero che abbiamo detto di stare a casa, ma se la casa è un incubo le donne devono farsi sentire”.
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