L’inizio di quest’anno ci ha colti impreparati. L’insorgere dell’epidemia COVID-19 partita da Wuhan, capoluogo della provincia dell’Hubei, ha provocato un panico globale e una serie di reazioni tra la popolazione mondiale che rasentano l’irrazionalità.
L’epidemia da Coronavirus ha colpito il nostro Paese a partire dalla fine di gennaio, e da allora il virus si è diffuso in quasi tutta Italia. Ad oggi l’Italia registra il terzo più alto numero di infezioni al mondo. Il trovarsi impreparati all’insorgere di un virus del genere e l’infodemia scatenata da un’informazione confusa e spesso contraddittoria ha scatenato nella popolazione un meccanismo di difesa che molto spesso è sfociato in episodi gravi di razzismo e violenza.
Il Coronavirus, dal momento in cui ha iniziato a diffondersi in Asia, ha portato in Italia una pericolosa ondata di sinofobia. Abbiamo assistito a diversi episodi di discriminazione o violenza nei confronti di persone di etnia asiatica, dall’aggressione a Venezia subita da una coppia di turisti cinesi al cartello in un bar di Roma che vietava l’ingresso ai cinesi (parallelismo preoccupante con una scena de La Vita è Bella), dalle discriminazioni attraverso i social network ai pestaggi nei confronti di chi ha tratti somatici orientali. Razzismo o paura del contagio? Quando si oltrepassa la linea che separa i due termini? È chiaro che episodi di violenza non possono essere mascherati da altro, il virus della paura non può generare violenza, il rischio è alto: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Il Coronavirus è partito dalla Cina, e fino a quel punto è stato “facile” puntare il dito contro i cinesi accusandoli e relegandoli ai margini per paura del contagio. Ma adesso il problema riguarda noi italiani, e non sono mancati episodi preoccupanti di discriminazione.
Uno degli episodi più noti avvenuto negli ultimi giorni pone un interrogativo all’opinione pubblica: ha più valore la salute pubblica o la privacy? Il fatto è avvenuto nel beneventano: il sindaco di Cusano Mutri ha diffuso attraverso la sua pagina Facebook i dati di un giovane militare risultato positivo al COVID-19 in un paese vicino. I dati sensibili del giovane sono stati sbattuti in un post sul social network dal sindaco, in barba alla privacy. Il sindaco si è però difeso invocando la tutela della salute pubblica, più importante della privacy del singolo cittadino. Ma cosa pesa di più nella bilancia?
Il virus si è diffuso nel nostro Paese a partire dal nord Italia, cosa che ha ovviamente scatenato ulteriori divisioni e contrasti. È noto il caso riguardante un consigliere comunale di Pavia, il quale – anche lui su Facebook – stufo di sentirsi un “untore” del nord si è scagliato contro i meridionali attraverso un post, prontamente cancellato. I ruoli torneranno a invertirsi, ha scritto il consigliere comunale, tutto tornerà “alla normalità”. Possiamo permettere che soggetti ricoprenti ruoli di rilievo alimentino l’avversione tra connazionali?
E paladini della discriminazione si fanno anche i giornali: il 4 marzo un noto quotidiano nazionale titola così la prima pagina. Immediate sono state le reazioni del resto della stampa nazionale e dell’opinione pubblica, indignata per il cattivo gusto delle parole utilizzate dal quotidiano. “L’infezione crea l’Unità d’Italia”, il virus unisce terroni e polentoni rendendoci tutti uguali e finalmente anche il Sud ne subisce gli effetti. Questa scivolata potrebbe generare conseguenze per il quotidiano, ed in particolare il direttore responsabile della testata e l’autore dell’articolo, i quali rischiano di subire le conseguenze previste dalla legge professionale dell’Ordine dei Giornalisti che possono andare dal semplice avvertimento alla radiazione dall’albo.
In questo tempo di crisi è più che mai necessario invocare la razionalità, mantenere la lucidità per evitare che il contagio dell’odio diventi incontrollabile generando conseguenze sempre più spiacevoli e gravi.
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