UNICT – Il capo della DIA Governale: “La mafia si batte con la storia e restando uniti”

Un incontro sul fenomeno mafioso tenuto presso la Scuola Superiore di Catania e organizzato dall'Università ha avuto come relatore il generale dei Carabinieri Giuseppe Governale, attuale capo della DIA, che ha mostrato come è cambiata la mafia negli anni e indicato come poterla combattere nella vita di tutti i giorni.

Ieri pomeriggio, mercoledì 29 gennaio, presso la Scuola Superiore di Catania si è tenuto un incontro per il ciclo “Educazione alla legalità” dal tema “La mafia teme più l’istruzione o la giustizia?“. Tra i relatori, l’ospite d’onore è stato il generale dei Carabinieri Giuseppe Governale, già capo del Ros e attualmente direttore della DIA. All’incontro erano presenti pure Vania Patanè, professoressa di diritto processuale penale, e Adriana Di Stefano professoressa di diritto dell’Unione Europea presso il Dipartimento di Giurisprudenza.

Il generale ha tenuto una lectio magistralis sul fenomeno mafioso, raccontando episodi della sua vita sia privata, cioè di come ha vissuto da bambino e da adolescente la mafia, sia professionale col racconto di alcuni interventi da ufficiale dei carabinieri, di cui ha guidato negli anni scorsi il Ros, prima di passare alla Direzione Investigativa Antimafia.

“Io non sono qui per farvi grandi conferenze, per parlarvi dei grandi sistemi o di chissà quali grandi trattati. Io sono qui perché vi voglio dare le nozioni di base per comprendere il fenomeno mafioso. Un fenomeno che penso possa essere quasi superfluo evidenziare a dei ragazzi che sono nati in questa terra“, ha dichiarato il generale Governale aprendo la sua relazione.

“L’ambito mafioso – ha continuato – è tutto particolare e noi non l’abbiamo mai focalizzato bene, noi meridionali, noi italiani dal 1861. Non l’abbiamo focalizzata bene perché si tratta di organizzazioni segrete, noi non ce lo dobbiamo dimenticare mai, che si sono poste all’attenzione non sempre in modo uguale. E ha inoltre aggiunto: “Loro hanno avuto la capacità di fare stratificare, di sedimentare per generazioni di meridionali qualcosa che noi non riusciamo a spiegare, una mentalità che purtroppo ci hanno insinuato“.

Secondo il generale, difatti “noi siciliani abbiamo un imprinting, simile a quello del calabrese, vicino a quello del napoletano ” e questa formazione che abbiamo ricevuto è frutto di una mentalità tramandata nelle diverse generazioni che hanno più o meno subito il fenomeno mafioso direttamente o indirettamente sulla loro pelle e che oggi ci porta a vivere in un determinato modo.

Il generale punta molto sul profilo storico, perché ricorda come un popolo senza storia è un popolo senza memoria, e cita a tal proposito un dato “i laureati nel 2017 in scienze della comunicazione sono 34 mila, di cui il 10 % solo a Catania ma in storia si sono laureati solo in tre ed io pensavo ad un errore di battitura, difatti ho chiamato Sergio Rizzo per chiedere.

E punta proprio sulla storia per spiegare che di mafia non si è parlato solo oggi o dal 1992, ma si parlava di mafia anche nei primi anni del secolo scorso, e a farlo erano i principali esponenti della politica e delle istituzioni, come Luigi Sturzo, fondatore del Partito Popolare Italiano, Vittorio Emanuele Orlando, capo del governo italiano durante la I guerra mondiale o Mario Scelba, che ha definito “il ministro dell’interno più duro che abbiamo avuto nella Repubblica“.

Citando i loro discorsi, è stato tratteggiato un ritratto del fenomeno mafioso e di come veniva percepito nella società siciliana e italiana il mafioso. Si tratta di descrizioni che si possono avere anche dagli stessi mafiosi, che nel fare un ritratto dell’organizzazione mafiosa e dei comportamenti dei boss usano spesso le stesse parole e gli stessi termini. A tal proposito, il generale ha mostrato un’intervista di Luciano Liggio, il capo dei corleonesi, realizzata durante la carcerazione ad Enzo Biagi e trasmessa nel 1989.

La data spartiacque, però, è stata il 1992, come sottolinea lo stesso Governale. Da lì è cambiata la visione della mafia e da lì è stata definita finalmente come un’organizzazione criminale. “Loro hanno cambiato metodo, cambiano le procedure, all’epoca facevano affari con la lupara, oggi però fanno affari con il mouse. Sciascia quando parla dei mafiosi li definisce quelli con la coppola, con la bonacca, che è un termine dialettale siciliano e indica la giacca (molto spesso in velluto, ndr), e con la lupara. Oggi si presentano con abiti di Brioni da 2.500 €, belle macchine, la laurea presa a Cambridge, ad Harvard, a Yale e si presentano alla City“.

Ma, secondo il generale, il compito ultimo che ha la società civile e che può sconfiggere il fenomeno mafioso, che pure Falcone caratterizzò come fenomeno umano e che, come tale è destinato ad una fine, anche se non si sa ancora quando e come avverrà, è quello di formare una società civile forte. Infatti, col suo intervento, il generale Governale vuole lanciare un segnale e contribuire a questa formazione: “Io non vedo voi come studenti, io vedo in voi un avvocato, e che l’avvocato abbia un aplomb istituzionale. Il commercialista, se la legge gli dice di segnalare le operazioni sospette, le deve segnalare. Altrimenti a noi del 100% delle operazioni sospette ci arriva dai notai e dai commercialisti lo 0.94%. Ma serve una classe dirigente produttiva, perché abbiamo la necessità di costruire uno Stato affidabile e non possiamo delegare questa cosa ad altri. E facendo gioco di squadra come loro, non si corrono rischi. Il rischio è solo quando si resta soli“.

Qual è, quindi, il ruolo delle università nella lotta alla mafia? Può partire dagli atenei il riscatto? Per il generale Governale la risposta è sì. “L‘Università è una palestra – dichiara ai microfoni di LiveUnict -, fatta di tanti giocatori, ognuno dei quali è essenziale, ognuno dei quali si forma, impara delle regole, ma soprattutto deve imparare le regole del gioco che lo fanno crescere come cittadino. Sono le regole che poi consentono di formare uno scudo e che poi nella vita normale, di tutti i giorni. Una volta che diventerai un professionista, diventerai un avvocato, diventerai un professore, ti consentiranno di non cedere alle lusinghe, di avere coerenza, di lavorare attraverso dei principi, certamente di operare con riferimento all’etica. Noi non abbiamo certamente bisogno di uno Stato etico, ma di cittadini che vedono il rispetto delle regole come una ginnastica da praticare e non solamente da ascoltare e guardare negli altri, deve essere una cosa importante per ciascuno“.

Manfredi Restivo

Nato a Piazza Armerina ma cresciuto a Nicosia, laureando in Giurisprudenza presso l'Università di Catania, appassionato di libri, musica e sport, calcio e formula 1 su tutti, ha unito nel tempo la passione per il giornalismo iniziando a collaborare con la redazione di LiveUnict.

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