Oggi è la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. I casi di femminicidio, in Italia, continuano ad aumentare: come e quando denunciare? I consigli dell'avvocata Francesca Giuffrida.
Nel nostro Paese una donna viene uccisa ogni tre giorni. Secondo gli ultimi dati Istat del primo semestre del 2019, quasi 7 milioni di donne italiane dai 16 ai 70 anni hanno subito almeno una volta nella vita una violenza. Violenza sessuale (5,4%), violenza fisica (20,2%), stalking (4,4%) e maltrattamenti in famiglia (11,7%) sono solo alcuni dei tanti volti della violenza di genere, mentre gli episodi più gravi sfociano in quelli che vengono comunemente chiamati “femminicidi”. Stando ai dati del rapporto Eures su femminicidio e violenza di genere in Italia diffusi qualche giorno fa, sono ben 142 le donne uccise in Italia nel 2018. Un numero in aumento rispetto al 2017, che fa schizzare la percentuale di donne uccise al 40,3%.
Si tratta di numeri sconcertanti, che assumono ancora più rilevanza se pensiamo al fatto che la criminalità nel nostro Paese è in diminuzione e – al contrario di quanto comunemente si pensi – la maggior parte dei femminicidi viene commessa all’interno della coppia, da parte di un coniuge o di un convivente nel 65,6% dei casi o da un ex partner nel 24,4% dei casi. Oltre a questi, si rilevano violenze da parte dei colleghi di lavoro nel 2,5% dei casi, da parenti nel 2,6%, da amici nel 3% e da conoscenti nel 6,3% dei casi. Tra le principali vittime di femminicidio, non stupirà sapere che ci sono anche le donne straniere, che rappresentano il 24,4% delle donne uccise. In totale, dal 2000 ad oggi, sono 3.230 le donne uccise in Italia.
Denunciare una violenza, per moltissime donne, è ancora oggi una scelta più coraggiosa che scontata. Nonostante il lavoro instancabile dei gruppi femministi e dei centri antiviolenza che, in questi ultimi anni, hanno contribuito ad abbattere molti muri, i pregiudizi sono ancora tanti. Nella maggior parte dei casi, prima che una donna prenda coscienza di essere una vittima di violenza, passa del tempo. Ma quand’è che occorre denunciare? “Le condotte che sono penalmente rilevanti, e che vanno quindi denunciate – spiega Francesca Giuffrida, avvocata penalista del Foro di Catania a LiveUnict –, riguardano tutte quelle forme di violenza psicologica, fisica, sessuale, nonché gli atti persecutori (cosiddetto stalking). Si tratta di condotte che, purtroppo, anche se delle volte, in un primo momento, possono apparire prive di particolare significato, di fatto poi possono degenerare, nei casi più estremi nel reato di femminicidio”.
Non è un segreto che gli episodi più violenti, tuttavia, derivano spesso da ritardi di sorta che non permettono alle donne di ricevere tutele realmente adeguate. Per questo, l’avvocata precisa che, di recente, è stata introdotta una normativa specifica che prevede la protezione delle donne nella fase delle indagini e nella fase cautelare del procedimento penale. “Esiste una rete di case-rifugio, idonee ad ospitare le donne che non sanno dove poter trovare ospitalità e soprattutto protezione – continua Giuffrida –. Inoltre, nel momento in cui la vittima viene ascoltata dagli organi preposti alle indagini è previsto l’affiancamento di uno specialista, psicologo o psichiatra. È, infine, prevista la possibilità per la persona offesa, a prescindere dal reddito, di poter accedere al patrocinio a spese dello stato”.
La causa scatenante della maggior parte delle violenze, sempre secondo i dati Eures, è legata alla scelta di una donna di separarsi o di uscire da un rapporto violento. In questi casi, tra le condotte violente più diffuse, e più sottovalutate poiché più facilmente equivoche, c’è sicuramente quella dello stalking. Ma qual è il confine tra gelosia e stalking? “Il reato – spiega l’avvocata – si consuma nel momento in cui vengono poste in essere un insieme di condotte vessatorie, sotto forma di minaccia, molestia, atti lesivi continuati nel tempo che inducono nella vittima un disagio psichico e fisico nonché un ragionevole senso di timore. Le pene previste sono da uno a sei anni e sei mesi, e sono previsti degli aumenti di pena per talune circostanze specifiche”.
Ancor prima della querela, inoltre, una donna vittima di comportamenti molesti ha la possibilità di esporre i fatti alle autorità di pubblica sicurezza e di chiedere un ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. Qualora la richiesta sia ritenuta fondata, il soggetto viene ammonito oralmente e invitato a tenere una condotta conforme alla legge. “In tal modo è stata inserita una tutela ‘anticipata’ – commenta Giuffrida –. In certi casi lo strumento dell’ammonimento può risultare sufficiente a dissuadere lo stalker dai suoi intenti persecutori. Viceversa, nel caso in cui il soggetto ammonito dovesse porre in essere ulteriori condotte persecutorie, incorrerà in condanne a pene più severe”.
Nonostante le evidenti lacune del “Codice Rosso” – che presenta gravi carenze in termini prevenzione del reato, di formazione delle Forze dell’Ordine e di investimenti nei centri antiviolenza (leggi il caso del Centro Antiviolenza Thamaia di Catania) – oggi sono sempre di più le donne disposte a denunciare. E come agisce la legge in questo senso? Quali sono le pene in cui si può incorrere? “In generale, le pene previste – spiega Giuffrida – sono abbastanza severe e, laddove all’esito del procedimento penale l’imputato venisse riconosciuto colpevole e conseguentemente condannato, la persona offesa, che ha facoltà di costituirsi parte civile, può ottenere il riconoscimento del risarcimento per i danni subiti. Nelle nostre aule di giustizia oramai si assiste quotidianamente a processi relativi a casi di violenze sulle donne”.
“Quando vi sono elementi idonei a supportare l’ipotesi accusatoria si ottiene una condanna. In ogni caso – conclude l’avvocata catanese –, oggi la donna vittima di un reato, anche grazie agli interventi legislativi di cui si è detto e alla sensibilizzazione sociale, ha la possibilità di difendersi e di trovare tutela e assistenza non solo dal punto di vista legale ma anche da quello strettamente umano e sociale”.
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