La lettera-denuncia di Alessia Scarso racconta l'odissea del padre, morto prima di poter essere visitato al Policlinico di Catania.
Sta facendo il giro del web la lettera, scritta col cuore in mano, da parte di Alessia Scarso. La donna, figlia dell’avvocato Carmelo Scarso – morto nell’attesa di una visita mai arrivata al Policlinico di Catania – ha voluto manifestare sui social, in maniera lucida e non troppo polemica, il proprio rammarico per quanto avvenuto negli ultimi mesi.
Oggi l’assessore alla Salute, Ruggero Razza, ha disposto una commissione ispettiva “per fare luce sul caso denunciato dalla figlia di un paziente originario di Modica deceduto alcune settimane fa. Le ispezioni riguarderanno tutte le Aziende coinvolte nella vicenda”.
Il testo completo della lettera di Alessia Scarso:
“‘Ricorda sempre il 5 novembre’.
Questa frase è tratta da un film e ricorda la congiura delle polveri, un tentativo fallito di spodestamento del potere in Inghilterra nel 1605.
Per me il 5 novembre rappresenta una data simbolica. Oggi è il giorno in cui a mio padre, l’Avv. Carmelo Scarso, gravemente malato, era stato fissato un appuntamento per una visita medica presso il reparto di Pneumologia del Policlinico di Catania, unico reparto in Sicilia autorizzato a somministrare un farmaco in grado di ottenere risultati contro la patologia di cui soffriva.
Esiste una rete tra medici che consente in casi gravi di interloquire con determinati reparti, anche solo a livello informativo, e nemmeno attraverso quella rete si è potuti entrare in contatto con la Pneumologia del Policlinico, ché ormai era tempo di ferie e tutti avevano diritto al riposo.
Era giugno quando abbiamo chiesto l’appuntamento.
Agosto quando abbiamo insistito.
Mio padre, dopo tenace lotta, ci ha lasciati ai primi di settembre.
Se il Policlinico fosse stato l’unico interlocutore al quale avessimo chiesto aiuto e supporto, la nostra pace sarebbe compromessa. Fortunatamente ci siamo trovati nelle condizioni di poter chiamare il Policlinico Gemelli a Roma e ottenere velocemente una visita a pagamento con un luminare della Pneumologia, che ci ha delicatamente esortati a comprendere che la situazione era così grave che quel famoso farmaco non avrebbe inciso in maniera significativa sulle condizioni di salute generali di mio padre. Lo stesso luminare ci ha raccomandato di rivolgerci alla Pneumologia del Policlinico di Catania, definendola d’eccellenza. E però l’appuntamento rimaneva fissato al 5 novembre. Abbiamo tentato allora di riporre speranze in un’altra eccellenza siciliana, l’Ismett di Palermo, ma alla data di oggi non è ancora pervenuta la loro interpretazione della cartella clinica che gli avevamo recapitato. “La leggo mentre sono in ferie” mi aveva tranquillizzata il medico su cui avevamo riposto le ultime speranze. Più o meno attraverso le stesse modalità non è mai pervenuta la visita fiscale per la richiesta dell’invalidità civile da parte dell’ASL di Ragusa.
È curioso come non solo interi reparti siano difficilmente accessibili in tempo di ferie, ma anche i servizi rallentino drammaticamente il loro già claudicante corso. Ad agosto tutto si ferma. Per tutto il periodo di ferie i telefoni dell’ASL di Ragusa sono stati fuori uso, e c’era un solo oncologo di turno. Uno solo. Irraggiungibile perché non bilocazionabile. Dalla stessa ASL non ci è venuta la sedia a rotelle, né il letto con alzata assistita, ché da due anni è fermo il bando di attribuzione del servizio. Per fortuna c’è stato un intero esercito di amici, di medici, di terapisti, di farmacisti, che hanno oltrepassato il loro compito. Medici che seppur in ferie hanno lasciato i figli in spiaggia solo per venire a portare una parola di conforto e lenire le sofferenze, giacché ormai la gravità era tale che di visita medica non si poteva più parlare.
Li riconosci subito i professionisti che hanno scelto la missione, e quelli che hanno scelto la carriera. Quelli che si sono sudati il posto, e quelli che se lo sono preso. Quelli imbrigliati nel protocollo, e quelli che ti guardano negli occhi e ti regalano la loro onestà pura.
Non sto qui a giudicare nessuno, perché non sarebbe possibile farlo, e se non ci fossero persone dedite ai protocolli ci ritroveremmo nel caos.
E però c’è un evidente scollamento, una distanza non indifferente tra il bisogno del paziente grave e ciò che la sanità pubblica è in grado di dare, per lo meno qui dove vivo, in Sicilia.
Ho viaggiato abbastanza e ho stipulato sufficienti assicurazioni sanitarie per l’estero da capire che la sanità pubblica gratuita è una risorsa impagabile, nonostante la spropositata pressione fiscale che sosteniamo. Quanto avremmo speso in interventi chirurgici, analisi di laboratorio, bombole di ossigeno, terapie radio e chemio, se avessimo dovuto pagarle? Cosa accade a una persona che ne ha urgente bisogno se non possiede una carta di credito funzionante, oltre paese?
Alla fine in famiglia abbiamo deciso di fare alcune terapie fuori dalla Sicilia. C’è un momento in cui questa possibilità ti arriva inesorabile. Perché succede che un giorno non funziona la Tac, e un altro giorno ti arriva la telefonata della Pet in manutenzione mentre sei già in viaggio per il Cannizzaro di Catania, e un’altra volta, post intervento, mandi i Carabinieri al Garibaldi di Catania a recuperarti il reperto istologico di cui attendi gli esiti da due mesi, e tu te lo spedisci da solo a Bologna, che te lo restituisce in 12 giorni con referto scusandosi per il ritardo.
‘Non sa di cosa parla’ sono le parole dell’Assessore Regionale alla Sanità siciliana ancora scritte sul cellulare di mio papà, il quale aveva ritenuto opportuno avvisarlo di questo pericoloso genere di disservizio diagnostico.
Non si può capire perché, nello stesso sistema sanitario che risponde agli stessi identici protocolli, in Friuli Venezia Giulia ti avvisano il giorno prima della manutenzione straordinaria delle macchine con una telefonata, chiedendoti di posticipare di mezz’ora la seduta di terapia e scusandosi per l’inconveniente, mentre qui non può accadere la stessa cosa.
Il CRO di Aviano, per l’esattezza, è l’Istituto che abbiamo scelto per la terapia. Erano decine i siciliani in cura lì insieme a noi. La gente del luogo ci chiedeva perché fossimo così tanti i siciliani. Non sapevo rispondere. ‘Perché da noi si futtunu i farmaci e chissà cosa ci mettono nella chemio’ disse una signora di Palermo. Ipotizzava che dalle sue parti venissero somministrati altri farmaci blandi, invece che i chemioterapici corretti. Paura strana. Leggenda popolare. Questo la mia mente elabora, nonostante qualche mese prima ci fosse stato un furto di farmaci antitumorali all’Ospedale di Ragusa, là dove aveva già tentato una terapia mio papà. Io non ce l’ho il coraggio di pensare che quella signora possa avere ragione, non riesco a credere che quella specie di leggenda popolare possa avere fondamento. Non ho il coraggio di credere che l’uomo sia capace di tanto.
Papà era convinto che bisognava molto fare e poco prendere. ‘Fai il tuo’, e non ‘prendi il tuo’. Io voglio azzardare. Fai bene il tuo. Tra il fare e il fare bene passa veramente poco. Un pizzico di fatica in più ma tanto risultato in più.
Io non ho strumenti per capire dove potrebbero risiedere le soluzioni per sistemare le cose. Queste memorie del 5 di novembre non vogliono essere rabbiose: nessuna congiura e nessun attacco a nessun potere. È un’esperienza, sono fatti, è percepire che quel piccolo passo in più lo dobbiamo ancora imparare a fare. Però se fossi un dirigente, un direttore sanitario o un politico vorrei leggere parole come queste, con attenzione, e sarebbe opportuno usare meno alterigia di quella già riscontrata, perché è nelle persone che si trovano le risposte. È in quel fare bene, è nella prontezza del personale del 118, è negli occhi degli infermieri di rianimazione, è nei medici stanchi, è nei farmacisti gentili, è nella prontezza, nella fermezza, nello studio, nella preparazione, è nei sorrisi e nell’Amore che si accompagna una persona malata verso un destino. Qualunque destino sia.
Ricorderò sempre il mio 5 novembre”.
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