Il ricordo della strage di via D'Amelio a 27 anni dalla scomparsa del giudice Paolo Borsellino, tra la ricostruzione dell'evento e le parole del magistrato.
Sono passati 27 anni dalla strage di via D’Amelio, a Palermo, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Una “strage di Stato”, come la definirà il fratello del giudice Salvatore Borsellino, avvenuta a pochi mesi dalla strage di Capaci che aveva visto la morte del collega Giovanni Falcone, assassinato il 23 maggio dello stesso anno.
Alle ore 16:58 di oggi, ventisette anni fa, una Fiat 126 rubata contenente 90 kg di esplosivo telecomandati a distanza esplose in via Mariano D’Amelio 19, a Palermo, sotto il palazzo dove abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, rispettivamente madre e sorella del magistrato, che quest’ultimo era andato a trovare la sera prima.
L’unico sopravvissuto, l’agente della scorta Antonino Vullo, così descrisse l’esplosione: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto…”.
Il 2019 è il primo anno in cui l’anniversario verrà celebrato in assenza della sorella Rita, attivista e politica che ha dedicato la vita alla lotta contro la mafia in tutte le sue forme, scomparsa nell’agosto dello scorso anno. Ogni anno le iniziative commemorative si ripetono, tra fiaccolate, minuti di silenzio, condita da un’ampia presenza di politici, chi più, chi meno impegnati a difendere la causa della legalità.
Nel ricordo della scomparsa di un grande siciliano, tuttavia, voltarsi indietro per attingere con forza a quei valori incarnati dai giudici Borsellino e Falcone è forse l’unico modo per infrangere il muro ovattante della retorica e ricordare davvero chi ha pagato con la vita il proprio impegno nella lotta contro la mafia.
Eppure, per quanto i due siciliani siano visti universalmente come dei giganti, è bene ricordare anche il modo in cui loro stessi si vedevano. Lo dicono le stesse parole dello stesso giudice, che a proposito dello stipendio dichiarava: “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato”. Servitore integerrimo dello Stato, la sua posizione era questa, e lo era malgrado la carenza di mezzi a sua disposizione, come ricordano le parole amaramente ironiche contenute in un audio inedito di Borsellino rilasciato pochi giorni fa.
Accanto a questo, la paura di essere fermato prima di giungere la verità, la convinzione, dichiarata in un’intervista citando le parole di Ninnì Cassarà, di essere un “cadavere che cammina”, la lotta alla mafia intrapresa per un problema morale, “perché la gente mi moriva attorno”. Quanto e forse più delle sue stesse azioni, le parole di Borsellino aprono, per chi le ascolta, un rovello interiore. Accanto alla straordinarietà dell’uomo, ci ricordano che gli eroi, da soli, non bastano, e che l’impegno nella legalità, se perseguito da tutti, ha la forza di dissolvere la cortina di fumo della mafia.
In questa direzione, il ricordo del giudice Paolo Borsellino, nei ventisette anni della sua scomparsa, può concludersi con le sue parole a proposito dell’odore della libertà, contrapposto al lezzo emanato dalla criminalità organizzata: “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Tutori della legge e forze dell’ordine, insieme, sono le armi dello Stato per riportare alla giustizia chi si muove nel territorio dell’illegalità, ma sono farmaci inefficaci se la lotta non parte dall’interno dello stesso corpo cittadino, che ha le potenzialità di espellere le tossine presenti al suo interno.
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