La lettera del 28enne laureato in Medicina e abilitato alla professione sta facendo il giro del web: la sua visione del test di specializzazione che fa riflettere.
La somministrazione dei test è ormai un qualcosa a cui non si può prescindere nella vita di un universitario o di un laureato. In particolar modo, quando si va a parlare di specializzazione in un settore. Ed è proprio dal settore medico che emergono talvolta i fatti peggiori che danneggiano i dottori. Il problema del numero delle borse di specializzazione insufficienti rispetto al numero di laureati in Medicina è molto dibattuto negli ultimi giorni, soprattutto alla luce del recente aumento del numero di posti di Medicina annunciato dal ministro Bussetti. Secondo molti infatti sarebbe inutile aumentare i posti a Medicina se non vengono aumentati in egual misura anche le borse di specializzazione, perché così facendo, si finirebbe per lasciare fuori dal sistema molti giovani laureati, impedendo loro di ottenere una specializzazione.
A tal proposito, risulta importante la visione che un laureato in Medicina e abilitato alla professione ha voluto dare in una lettera (che sta facendo il giro sul web) in merito ad un test per la specializzazione. Le dichiarazioni del 28enne palermitano Giuseppe Di Liberto sono state poi riportate dalla pagina Facebook “Il Super Specializzando”.
“Vi racconto una storia. Questa storia parla di me, ma parla anche di voi. Ho 28 anni e sono un medico. Due anni fa mi laureo in Medicina e Chirurgia, dopo aver superato un test a numero programmato competitivo ed aver studiato e sacrificato gran parte della mia vita per sei lunghi anni. Insomma mi laureo e mi abilito. A quel punto mi viene detto: “Sappiamo che hai superato un test a numero chiuso e che hai sudato per sei anni dando più di trenta materie, ma non ci basta. Se vuoi continuare a essere formato, devi studiare ancora. E di più. C’è un altro test che devi superare ed è nazionale. Consta di 140 domande a risposta multipla, ci mettiamo dentro tutto quello che hai studiato in sei anni e pretendiamo che tu lo sappia perfettamente, a memoria”. Io sono stanco, vorrei entrare nel mondo del lavoro in maniera completa e soddisfacente invece di studiare ancora e ancora, ma accetto. Dico ok.
Mi dicono:“Il test lo fai a Catania perché abbiamo creato delle macrosedi per garantire una maggiore sicurezza contro i furbetti che vogliono copiare. Ci devi dare 100 euro per partecipare, ti devi pagare lo spostamento a Catania e devi pagare anche il B&B in cui dormire”. Io accetto, dico ok.
Ah, un’ultima cosa: non vi diciamo quanti posti esattamente saranno messi a bando. Voi fate il concorso e poi si vede. Mi viene da piangere, ma accetto. Dico ok.
Così ieri mi siedo davanti il computer di questa aula in cui l’aria condizionata sembra bloccata e sento così freddo che vorrei un plaid e mi dico che mi sto giocando tutto. Tutto lì, in 140 domande. Faccio del mio meglio e concludo la prova. Dietro di me tre ragazze che hanno appena visualizzato il loro punteggio stanno piangendo perché sanno che probabilmente rimarranno fuori. Hanno ottenuto un punteggio per cui non potranno accedere a quei pochissimi (ripeto, ancora oggi non so quanti) posti di specializzazione. Una mi dice:”Ma io ho studiato un anno. Adesso cosa faccio? Cosa dico ai miei genitori?”. Un’altra mentre si asciuga la guancia con il braccio mi dice:”Io me ne vado all’estero, non c’è posto qui per me”. Mentre il collega vicino a me ha provato questo concorso ogni anno dal 2014 e non è mai entrato. Nel frattempo però si è sposato, ha avuto un figlio e si è accontentato di un lavoro sottopagato e che lo espone a responsabilità molto elevate pur di tirare avanti. Lui non piange, non si dispera. Mi stringe la mano e, sorridendo in maniera mesta, mi dice:”In bocca al lupo”.
Io sto lì, ad ammirare la mortificazione e il senso di impotenza dei miei colleghi. Guardo le loro lacrime, mi accorgo del loro impegno, realizzo i sacrifici che hanno fatto e quelli che ancora dovranno fare per rimanere a galla in uno Stato che non li vuole. Non vuole formarli. Non vuole che siano meritevoli.
Io sto lì, fisso lo schermo del mio computer e non so che fare. Mi sento svuotato e fragile. Mi sento solo e il futuro è così spaventoso che non mi muovo. Sono tornato a casa ieri, ma con la mente sto ancora lì a fissare lo schermo del computer tra chi piange e chi si sente svilito. Sto ancora lì, svuotato. Sto ancora lì, spaventato. Ho cominciato scrivendo che questo racconto riguarda anche voi. È vero. Il fatto che non ci siano borse di specializzazione per tutti noi vuol dire che non ci saranno specialisti per voi quando ne avrete bisogno. Non ci sono già. In molti ospedali stanno richiamando medici ormai in pensione per la fortissima carenza di specialisti. Questa storia riguarda tutti. E tutti, nessuno escluso, dobbiamo chiedere spiegazioni al Governo che ci rappresenta su cosa sia successo. Su quando abbiamo cominciato a credere che il nostro Sistema Sanitario Nazionale valesse così poco. Su quando abbiamo cominciato a pensare che i nostri laureati, i nostri medici, valessero così poco. Io sto ancora lì, a fissare lo schermo di quel computer. Sto ancora lì e non so che fare“.
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