Ospite per Porte Aperte al Monastero dei Benedettini, Tim Allen, animatore che negli anni ha collaborato con registi come Tim Burton e Wes Anderson, racconta al pubblico segreti e curiosità del suo mestiere.
C’erano una volta, e in realtà ci sono ancora, i pupari, che, armeggiando tra fili e giunture dei pupi, danno vita a spettacolari battaglie medievali, tratte dalla Chanson de geste e da una secolare tradizione orale, incantando con un’arte senza tempo i loro spettatori. Oggi le cose sono cambiate, i modi di raccontare storie si sono evoluti, ma il fascino del “pupazzo” (d’ora in poi, semplicemente puppet) è rimasto, sopravvivendo alla sfida del tempo.
Di quest’arte antica, Tim Allen e quelli che come lui svolgono il complesso mestiere di animatore, sono in un certo senso gli eredi e i continuatori. Potrebbe sembrare difficile vedere nella complessità mimica dei cani di Isle of Dogs e nella bellezza spettrale de La sposa cadavere i lontani cugini di Orlando, Carlo Magno e degli altri paladini che si scontrarono contro gli infedeli musulmani, eppure in un certo senso è proprio così.
Tim Allen, animatore di fama mondiale che nei suoi recenti lavori ha lavorato a stretto contatto con registi del calibro di Wes Anderson e Tim Burton, nella giornata di ieri ha parlato del suo rapporto con i puppet e del suo mestiere in un incontro col pubblico, accorso numerosissimo per incontrarlo, al Chiostro di Ponente del Monastero dei Benedettini, durante un evento tenutosi all’interno della rassegna di eventi Porte Aperte. A seguito dell’incontro, rigorosamente in lingua originale, è stato anche proiettato il film di Wes Anderson di cui è stato il key animator, Isle of Dogs, candidato anche agli Oscar. Ma prima è stato il caso di chiarire che cosa sia un puppet.
“Una domanda molto seria per qualcuno che per vivere gioca con le bambole – afferma sorridendo l’animatore nel rispondere alla giornalista che ha moderato la discussione -. Per me un puppet è una maniera molto seria di comunicare, puoi vederlo in modo simile all’indossare una maschera. Quando indossi una maschera, puoi esprimere parti della tua personalità sulle quali diversamente avresti delle inibizioni e non saresti stato in grado o non avresti avuto il coraggio di dire o fare quella cosa”.
Se di una maschera si tratta, dunque, dev’essere greca, con la funzione al tempo stesso di amplificatore e catalizzatore dei sentimenti. L’autore del movimento, del gesto, non compare in scena, ma riesce a trasmettere comunque la sua anima alle creature inanimate che muove, grazie alle quali, “con un dito magico”, come dirà lui stesso, prendono vita. “Con un puppet riesci a esprimere diverse parti della tua personalità, che normalmente non oseresti esprimere nella società, in pubblico”, conclude.
Non si tratta, naturalmente, di un lavoro facile. Come affermerà al termine della presentazione anche lo stesso professore Rosario Castelli, delegato dell’Università ai Servizi culturali per gli studenti, c’è da rimanere a bocca aperta per l’efficienza e la precisione necessari a eseguire un lavoro in stop motion, la tecnica di animazione che, scatto dopo scatto fotografico, riesce a realizzare un video in cui i pupazzi devono essere controllati in ogni movimento.
Tim Allen, da animatore e appassionato insegnante di animazione qual è, tiene particolarmente che il pubblico capisca di cosa si tratti. Per questo esemplifica attraverso un video di prova tratto da una scena del film, durante la quale un sushi chef prepara una porzione take-away del famoso pesce crudo giapponese.
“Il numero che vedete scorrere in alto è il numero dei frame, degli scatti, se vogliamo. Fatemi non essere tecnico per un secondo: frame è ogni volta che muovi il puppet e scatti una foto”. A sinistra del video scorre il tempo, a destra, molto più velocemente, il numero di frame. È solo un esempio, ma basta a rendersi conto e ad apprezzare la quantità di lavoro presente dietro questi lavori: per soli tre secondi di video, sono stati necessari più di 180 frames.
“Quello che vedete sullo schermo non è totalmente animation, ma è un ‘transfer’ necessario per capire com’è l’animation e rendersi conto di come si muove il puppet”, spiega l’artista a proposito della differenza tra il vero e proprio puppet e lo schizzo disegnato che viene proiettato. Del resto, le prove sono fondamentali per questo lavoro, soprattutto quando si lavora con un maniaco della precisione come Wes Anderson.
Come gli appassionati dei suoi film sanno bene, nelle pellicole di Anderson tutto dev’essere simmetrico, è un marchio di fabbrica che il regista si porta dietro. L’Isola dei cani non fa eccezione, come dimostra poco dopo lo stesso Allen comparando le due versioni della stessa scena del sushi chef. Dettagli come la dimensione della busta del sushi, la maniglia del tagliere, lo sguardo dello chef verso un suo cameriere, persino i pollici delle mani che non si vedono mentre lavora il sushi, sono dettagli fondamentali su cui è necessario apportare modifiche. “Ma, se guardate con attenzione, i pollici non sono esattamente simmetrici e credo che Wes non si sia accorto nemmeno che l’occhio destro dello chef penda un po’ verso il basso, però ‘that’s fine’, può essere il nostro piccolo segreto”, conclude tra le risate e i sorrisi generali.
All’inizio si parlava del rapporto tra tecnologia e modo di raccontare le storie. Come coi pupari, anche in questo caso c’è stato un momento in cui si è temuto che l’utilizzo del computer nei film d’animazione potesse portare a un crollo del genere stop motion nell’ambito cinematografico. Ma così non è stato. Anzi, se film come Isle of Dogs raggiungono persino le nomination all’Oscar, è segno che lavori come questi hanno un fascino intramontabile. L’ingrediente segreto secondo Tim Allen? L’artigianato.
“Oggi alcuni mettono l’impronta digitale di proposito nei loro lavori di animazione – inizia a proposito del legame col lavoro manuale –, così che lo spettatore veda la mano dell’artigiano. Direi che il futuro dello stop motion è al sicuro, perché noto che la gente ama davvero il fatto che si veda l’impronta umana.
Personalmente, penso che sia anche una questione di nostalgia, dell’immagine di tornare all’infanzia e vedere i nostri giocattoli prendere vita. Amiamo l’idea, mossi dalla nostalgia, che quegli oggetti siano stati toccati dalle nostre mani, che siano stati mossi dalle nostre mani. La cosa buona – aggiunge con una battuta –, è che la gente continua a pagare per i film in stop motion, quindi probabilmente continueremo a stare in giro per un po’. Quello di cui abbiamo bisogno sono più belle location all’aperto dove poter godersi all’aperto questi film!”
Il riferimento alla bellezza del Monastero non poteva non scatenare applausi scroscianti, ma la conclusione è tutta rivolta al futuro. “Craft e technology lavorano insieme adesso. In alcuni film d’animazione sembra che i lavori siano completamente fatti al computer, invece le due cose vanno insieme. Questa cooperazione oggi spalanca le possibilità dell’animazione, creando possibilità infinite”, chiude l’animatore.
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