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Sanremo 2019, vince Mahmood: il meglio e il peggio della 69esima edizione

In archivio anche l’edizione numero sessantanove della principale manifestazione canora italiana: a spuntarla è il giovane italo-egiziano Mahmood, che supera al rush finale il favorito Ultimo e Il Volo. Premio della critica a Daniele Silvestri. 

Per molti sarebbe stato un “Baglioni-bis”, che per certi aspetti avrebbe dovuto ripetere – se non aumentare – il successo della precedente edizione. Sembra indubbio, al contrario, che Sanremo 2019 è stato un “Baglioni 2.0”, ovvero un’edizione completamente diversa da ciò che ci si aspettava, in termini di intrattenimento, di share, perfino di podio. 

Le tradizionali cinque serate dell’Ariston, in cui ovviamente non sono mancate critiche e polemiche, si concludono con la spiazzante vittoria di Mahmood, che ripete il successo del dicembre scorso, quando aveva vinto la gara ormai separata di “Sanremo Giovani”, staccando un inedito pass per concorrere con i “big” sul palco principale. La sua “Soldi” non ha tardato a far storcere molti nasi almeno nel momento in cui è stata proclamata canzone vincitrice: non si può negare che sia un brano fresco, ritmato, in linea anche con i nuovi gusti generazionali. 

Pur non condiviso da buona parte degli spettatori italiani, in rivolta sui social, il primato di Mahmood ribadisce il processo di svecchiamento della tradizione sanremese che Baglioni – forse giunto al capolinea della propria avventura come direttore artistico – ha innescato nelle ultime due edizioni. L’ingresso in gara dell’indie, di più diffuse sonorità elettroniche e sperimentali, di qualcosa che si avvicina alla tanto discussa trap, ne è una buona prova. 

La “rivolta” non è mancata neanche in sala – anche in quella dedicata alla stampa – dopo i verdetti della classifica dall’ultimo al quarto posto, nella quale giungono ai piedi del podio quattro dei favoriti per la contesa finale: l’applauditissima ed energica Loredana Bertè, Irama, Daniele Silvestri e Simone Cristicchi, gli ultimi due comunque giustamente ricompensati con un’incetta di premi, dalla migliore interpretazione al premio della critica. Deludente – ma non per buona parte del pubblico a casa – anche il piazzamento de Il Volo, così come la reazione di Ultimo, che sembra accusare il colpo anche a giudicare dal duro botta e risposta con i giornalisti dietro le quinte. Deludente, ma è un eufemismo, quella porzione di leoni da tastiera che gridano al complotto politico dietro la vittoria di Mahmood, facendo persino il nome di Giulio Regeni: ulteriori commenti su ciò sarebbero futili.

Deludente sul piano dell’intrattenimento, con pochi ospiti internazionali e poche risate sul divano ed in sala, questa edizione di Sanremo ha comunque mostrato le molteplici sfumature della canzone italiana: il riascolto ripetuto delle ventiquattro canzoni in gara sottolinea l’ottimo lavoro di selezione musicale capeggiato da Claudio Baglioni, cui sicuramente qualcosa si può rimproverare in quanto a conduzione, nonostante lo scintillante esordio dell’anno scorso. 

E proprio sul capitolo conduzione si odono le note dolenti di questo Sanremo: urla troppo – stona, per restare in tema – Claudio Bisio, che a tratti sembra dimenticare che l’Ariston non è Zelig, pur strappando un sorriso qua e là. Dà il meglio di sé ma troppo tardi, invece, Virginia Raffaele, che nonostante gli abiti scintillanti brilla particolarmente solo quando sfoggia il medley di imitazioni canore, da Fiorella Mannoia alla stessa Patty Pravo.

Tutti cantano Sanremo era lo slogan di qualche edizione precedente ma Baglioni non lo dimentica, proponendo anche intensi duetti che onorano pietre miliari della canzone italiana: commovente quello con Elisa per onorare Luigi Tenco, audace quello con Ligabue su “Dio è morto” di Guccini, doveroso in coppia con Serena Rossi sulle note di Mia Martini. Vibranti anche i tanto attesi duetti della quarta serata, ormai consolidati al posto della vetusta “serata delle cover”: in quella occasione a racimolare è stato Motta, in coppia con una rispolverata Nada.

 Irama, Paola Turci e Simone Cristicchi ci invitano a riflettere sul nostro rapporto con le persone più care, che siano quelle che ci proteggono o quelle che ci hanno messo al mondo, mentre Daniele Silvestri apre nuove frontiere sulle prigioni mentali, specie dei più giovani. I Boomdabash ci fanno ballare, Motta e gli Zen Circus aprono le porte alla canzone forte fuori e bella dentro, Achille Lauro dimostra che è il momento di inneggiare alla bella vita, gli Ex-Otago che non può (e non deve) essere solo una canzone. Anche dai più tradizionalisti (Tatangelo, Patty Pravo, Renga) capiamo quanto sconfinato possa essere sconfinato l’oceano delle potenzialità espressive della canzone italiana. Gli ingredienti per onorare questa tradizione ci sono (stati) tutti: per il resto, arrivederci al prossimo Ariston.

Luciano Simbolo

Aspirante giornalista, praticante studente, occasionalmente musicista. Collaboratore dal 2016, studia Lettere moderne presso il DISUM di Catania. I tre imperativi fondamentali? Scrivi, viaggia, suona ma senza dimenticare la pizza e lo sport.

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