Dopo l’arte di Chagall e di Escher, Arthemisia torna in città con una mostra dedicata ad uno dei più grandi talenti della street-photography del Novecento: Vivian Maier, la “fotografa ritrovata”.
La città di Catania continua a crescere culturalmente e a vista d’occhio. Dopo le numerose proroghe della mostra di Escher al Palazzo della Cultura, un altro grande nome dell’arte internazionale arriva nella città etnea che, negli ultimi anni, sembra lentamente risvegliarsi da un paralizzante torpore culturale. Fino al 18 febbraio 2018, gli spazi espositivi della Fondazione Puglisi Cosentino ospiteranno una mostra interamente dedicata a Vivian Maier, perla della street-photography del Novecento rimasta sconosciuta fino a qualche anno fa.
È solo nel 2007, infatti, che la storia e le foto di Vivian Maier vengono a galla. E lo fanno per un caso, quando un ragazzo di nome John Maloof – impegnato nella ricerca di foto d’epoca per uno studio su Chicago – si reca in una casa d’aste a caccia di scatti inediti e, per 380 dollari, compra una scatola piena di negativi (in tutto circa 150mila) confiscati per il mancato pagamento dell’affitto di un appartamento. Quello che Maloof scopre è un tesoro inestimabile e Maier, già anziana e malata all’epoca, non lo saprà mai.
Nata a New York nel 1926, dopo un’infanzia difficile e in giro per il mondo, Maier si trasferisce negli Stati Uniti e, per guadagnarsi da vivere, comincia a lavorare come bambinaia a Chicago. Farà questo mestiere per tutta la vita, ma nel frattempo comprerà una fotocamera professionale – una Rolleiflex – e coltiverà in segreto la passione per la fotografia fino alla propria morte. Non cercherà la fama e non mostrerà mai a nessuno le sue foto.
La mostra – curata da Anne Morin con Alessandra Mauro – ripercorre in maniera accurata il percorso dell’artista con oltre 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta, una selezione di immagini a colori degli anni Settanta e alcuni filmati in super 8.
Scattate principalmente tra New York e Chicago, sono moltissimi gli scatti che oggi ci restano di questa misteriosa fotografa: il suo interesse si concentra sulla vita quotidiana, ed è durante le sue passeggiate, quando porta a spasso i suoi bambini o nel tempo libero, che Vivian si dedica con cura ad immortalare, in maniera quasi ossessiva, tutto ciò che le capita davanti. Il suo soggetto preferito è la gente, ma anche dei dettagli in apparenza insignificanti: un cortile, un’ombra o un angolo nascosto.
Da un rapido sguardo agli scatti di Vivian Maier, si può notare come e quanto l’essere umano la appassionasse. Da bambinaia, Maier viveva in case di sconosciuti. Da sconosciuta in mezzo a sconosciuti e sconosciute, per le strade della città, fotografava gente incontrata per caso e di sfuggita. Ininterrottamente e affannosamente, quasi come se esistere per lei significasse dissolversi nell’altro, Maier spariva dietro l’obiettivo e si (ri)creava costantemente attraverso lo sguardo sulle vite altrui. Ma quello di Maier, per quanto silenzioso, non è mai uno sguardo anonimo. Al contrario, è uno sguardo vispo, preciso, attento che si posa con infinito candore sui bambini e con grande compassione sui senzatetto e sugli anziani, con acuta ironia e severità sulle ricche e altezzose signore delle classi più abbienti e con empatia sui poveri e sui proletari.
Uno sguardo, infine, alla costante ricerca del Sé. L’unico soggetto, infatti, che si ripete nelle foto di Maier è la stessa autrice. Sono moltissimi gli autoritratti dell’artista e, quasi sempre, riflessi su qualche superficie: uno specchio, una vetrina, una finestra, un’ombra, una qualsiasi superficie riflettente. Mai in posa, mai perfettamente definita, mai intera quasi a voler sottolineare la propria incompletezza, inconsistenza, e fluidità… fino al bellissimo e simbolico scatto a colori – non a caso denominato Self-Portrait – in cui ritrae il proprio cappotto a terra come un guscio vuoto da cui il proprio corpo è evaporato, perdendo e prendendo finalmente forma.
Basta osservare un paio di foto di Vivian Maier per rendersi immediatamente conto che adorava il mondo in tutte le sue sfaccettature, in tutta la sua comica tragicità. Un amore un po’ strano, silenzioso e ambiguo. E questo amore per il mondo e per le cose sembra essere avvalorato e rafforzato dal fatto che Vivian non abbia mai guadagnato un centesimo per le sue foto, che non abbia mai cercato nessuna forma di riconoscimento, di successo.
Un po’ come quell’altra splendida artista che fu Emily Dickinson, che non pubblicò mai le sue poesie, che nascondeva e custodiva gelosamente lontano da sguardi indiscreti e che poi, per nostra fortuna, furono ritrovate dopo la sua morte. Perché forse il vero talento, la vera passione, risiede nella creazione silenziosa, autentica, e mai nell’ostentazione o nel successo.
E chissà cosa avrebbe pensato oggi Vivian vedendo che il suo lavoro è, alla fine, venuto allo scoperto e che la sua figura solitaria e riservata è stata investita di una fama grandissima. Forse l’avrebbe odiata. O forse no. Mi piace pensare che, in qualche modo, l’avrebbe apprezzata: sommessamente certo, forse con un sorriso silenzioso e uno sguardo severo, ma segretamente consapevole e fiera di una grande sensibilità e di un immenso talento.
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