Nelle università inglesi voti più bassi per gli studenti e le studenti che non usano un linguaggio “gender-sensitive”.
Gli studenti dell’Università di Hull sono obbligati ad utilizzare un linguaggio neutro nei loro compiti: il rischio è quello di essere penalizzati con un voto più basso. Una riflessione sul potere e sulla natura altamente simbolica del linguaggio è la premessa di queste nuove direttive dell’università inglese dove gli studenti del corso di Scienze Sociali dovranno servirsi di un linguaggio “gender-sensitive”, ossia privo di riferimenti al genere. Così, invece di utilizzare i pronomi maschili “he”, “him” e “his”, quando non si è certi del sesso della persona in questione, si utilizzerà “he or she” o “s/he” o “they”.
Molte università hanno già adottato una condotta simile sull’utilizzo del pronome neutro, ma l’Università di Hull è la prima che penalizza a livello pratico gli e le studenti. Fino a questo momento, infatti, si era trattato solo raccomandazioni su un uso della lingua politically correct, come ad esempio l’uso della parola “people” o “humanity” al posto di “mankind”. L’Università di Cardiff, ad esempio, ha stilato una lista di termini neutri, dando delle alternative ad alcuni termini diffusi nel linguaggio parlato: ad esempio, sarebbe meglio usare “efficient” anziché “workmanlike”, e “supervisor” al posto “foreman”. Anche l’Università del North Carolina, due anni fa, ha distribuito una guida che incoraggiava gli studenti a non utilizzare alcuni termini come “mailman” e di sostituirli con termini più corretti come “postal carrier”, ecc.
Le polemiche e le critiche ovviamente fioccano. C’è chi sostiene che l’istruzione non debba interferire con l’abilità degli e delle studenti di scrivere correttamente; o chi, descrivendo questo fenomeno come “linguistic policing” sostiene che si tratta di un mezzo coercitivo per imporre una visione conformista col rischio, qualora non la si condivida, di pagare una penalità, ricevendo un voto più basso. Tuttavia, come sostiene Lia Litosseliti, professoressa in linguistica all’Università di Londra, in un’intervista sul Guardian, il linguaggio è fortemente simbolico e le parole non sono mai neutrali. Viste le infinite possibilità che il linguaggio ha di definire, banalizzare, far scomparire determinati gruppi sociali, non dovrebbe sorprendere che un intervento linguistico importante possa aiutare a costruire una società sempre più inclusiva. È molto facile ridicolizzare questi tentativi, mentre è più difficile stimolare una discussone che sia produttiva e utile per riflettere sulle discriminazioni di genere presenti nell’intera società.
Tra l’altro l’attenzione dei paesi anglofoni nei confronti del linguaggio sessista potrebbe stimolare la riflessione in questo campo anche in altri Paesi. In Italia, anni luce indietro rispetto agli inglesi per quanto riguarda le questioni di genere, la questione è ancora pesantemente ridicolizzata e sminuita, ma spesso si dimentica che il linguaggio è il modo in cui ci esprimiamo, che tramite esso creiamo dei concetti e che questi concetti determinano la realtà. Forse quella del sessismo nella lingua non sarà la questione più urgente tra tutte, ma perché non occuparsene assieme ad altre altrettanto importanti? È vero che non basta utilizzare un linguaggio non sessista per superare le discriminazioni, ma forse potrebbe rivelarsi un buon inizio e un momento di riflessione utilissimo.
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