Sono ancora molte le cose che non conosciamo a fondo sui meccanismi che governano la risposta, oltre che del nostro corpo, anche del nostro cervello alle sostanze che introduciamo all’interno dell’organismo. A questo scopo, vengono regolarmente allestiti studi, ricerche e sperimentazioni, che riguardano i prodotti più disparati, alcuni anche insospettabili. E gli esiti possono essere, a volte, a dir poco inaspettati.

E’ quello che è accaduto con uno studio effettuato dall’Ohio State University e dall’Istituto nazionale della salute statunitense Nih sul paracetamolo. Tutti noi conosciamo questo celebre principio attivo, commercializzato, da solo ed in associazione, con innumerevoli nomi (Tachipirina, Zerinol, Efferalgan eccetera eccetera); sappiamo anche che esso rappresenta un fedele alleato per chi soffre di raffreddore e influenza, in quanto analgesico fondamentale per alleviare i disturbi secondari di queste patologie; sappiamo, inoltre, che può essere addirittura usato (in associazione) come antidolorifico per dolori severi.

Quello che nessuno ci aveva mai detto, è che il paracetamolo, oltre ad alleviare il dolore, potrebbe attenuare il nostro grado di emotività, riducendo i nostri livelli di empatia nei confronti del dolore, nostro e di chi ci sta intorno.

L’insorgenza di questo particolare effetto, ovviamente al momento tutt’altro che accreditato, è il risultato dello studio in questione, pubblicato recentemente sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience, e condotto da Dominik Mischkowski dell’ Nih in collaborazione col dipartimento di psicologia dell’Ohio State University. Lo studio ha valutato se la famosa molecola analgesica possa ridurre la partecipazione emotiva al dolore, sottoponendo due gruppi di studenti universitari  a due sperimentazioni a doppio cieco. Nella prima, che ha riguardato 80 studenti universitari, 40 di loro hanno assunto 1.000 mg di paracetamolo, mentre gli altri 40 un placebo. Tutti i partecipanti all’esperimento, poi,  hanno dovuto leggere delle storie incentrate sul dolore, fisico o psicologico, valutando successivamente la sofferenza da essi percepita con numeri da 1 al 5.

I risultati di questo primo test hanno evidenziato che il gruppo che aveva assunto il farmaco ha valutato il dolore con valori più bassi rispetto a quelli espressi dal gruppo che aveva assunto il placebo.

Il secondo esperimento ha coinvolto 114 studenti. Anche stavolta, 57 di loro avevano davvero assunto il farmaco, mentre l’altra metà il placebo. Gli studenti sono quindi stati sottoposti a brevi ma intense esplosioni di rumori assordanti, dovendo in questo caso valutare, con numeri da 1 a 10, il fastidio che, secondo loro, il rumore era in grado di produrre in sé stessi e negli altri. Anche stavolta, i valori espressi dal gruppo paracetamolo si sono rivelati inferiori a quelli dell’altro gruppo.

Come dichiarato da Mischkowski, “I dati emersi dai vari test hanno evidenziato ripetutamente una inferiore capacità dei volontari sotto paracetamolo di percepire il “dolore altrui”, mentre un altro degli autori dello studio, Baldwin Bay, ha puntualizzato, con un esempio pratico, gli effetti concreti dei dati: “Se discutete con il vostro coniuge, dopo aver assunto del paracetamolo, potreste essere meno comprensivi e ferire i suoi sentimenti”. In ultima analisi, gli esiti di questa ricerca non possono che generare domande, sia riguardo alle basi neurochimiche dell’empatia, sia su quanto realmente sappiamo in merito alle sostanze che, quotidianamente,  introduciamo nel nostro corpo. Domande sicuramente dotate di una discreta rilevanza, se si pensa che il paracetamolo è uno dei farmaci più usati al mondo ed uno dei più usati sui bambini.

 

 

 

 

Daniele Di Stefano

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