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Interstellar… il nuovo 2001:Odissea nello spazio?

Interstellar è stato definito il nuovo 2001: Odissea nello spazio. Del resto l’accostamento è inevitabile anche per le citazioni disseminate da Nolan nel suo film, ma credo sia un confronto improponibile. Sono film diversi, canoni differenti. Se Kubrick è stato un illustratore concettuale, Nolan fa dell’accuratezza scientifica un mezzo per spettacolarizzare l’azione. Alcuni hanno criticato la scientificità di alcuni elementi, ma su questo punto ci tornerò dopo.

Il film mi è piaciuto per alcune cose, e non mi è piaciuto per altre. Ho amato la colonna sonora firmata da Hans Zimmer, intimo e delicato, dove l’organo diventa trionfo dell’invenzione umana. Ho adorato tantissimo l’uso del suono; solitamente nei film di fantascienza gli effetti sonori delle battaglie spaziali o dei propulsori dei razzi sono rappresentati con suoni assordanti. Il suono non si propaga nello spazio, ed utilizzare gli effetti sonori per l’ambiente circostante ne avrebbe tradito la veridicità. La straniante claustrofobia delle navicelle, la vastità dello spazio fuori dalle finestre, il silenzio assoluto, la sensazione di quell’ambiente alieno ed ostile. Ho particolarmente adorato la qualità nell’uso del 70mm e non del 3D, che mi regalato una sensazione tale da farmi sentire nello spazio.

Passati attraverso le atmosfere noir psicologiche di Memento e di Inception, con Interstellar ci troviamo davanti una società spezzata, che ha scelto la strada del ritorno al passato mettendo in dubbio l’utilità stessa della conoscenza. Una società dove “hanno vinto i complottismi anti-scienza”, dove a scuola si insegna che non ci sono mai state le missioni Apollo, in cui la NASA ha chiuso i battenti perché non si spendono soldi per esplorare lo spazio mentre le persone muoiono di fame, in cui è meglio coltivare la terra che studiare, e anche la medicina viene guardata con diffidenza. In una delle scene più salienti della pellicola, il protagonista Cooper interpretato da Matthew McConaughey, un tempo pilota e ora padre vedovo e agricoltore ricorda sull’uscio di casa come “un tempo alzavamo lo sguardo al cielo chiedendoci quale fosse il nostro posto nella galassia, ora lo abbassiamo preoccupati e intrappolati nel fango e nella polvere”. Interstellar prova ad essere un inno alla scienza, dove i veri eroi sono gli scienziati, ma se l’intento è buono, il finale non lo rivela. “Siamo esploratori”, è la frase simbolo del film, l’unica difesa è la nostra intelligenza, la fuga dalla “polvere” che inesorabilmente ricopre il nostro presente, è il futuro. Un futuro che noi stessi dobbiamo costruire.

Prima di andare al cinema avevo apprezzato che Nolan si fosse fatto consigliare da Kip Thorne, uno dei massimi esperti di relatività generale, eppure alcune cose di natura scientifica lasciano qualche perplessità. Quando l’equipaggio si avvicina al buco nero non sarebbero dovuti morire per la radiazione energetica del disco di materiale super caldo che circonda Gargantua? Atterrano su un pianeta che orbita attorno ad un buco nero, ad una vicinanza tale che non potrebbe nemmeno esistere poiché le forze di marea generate dalla immensa forza di gravità del buco nero lo risucchierebbero, o forse no? Forse il buco nero in questione ruotando curva lo spazio-tempo in un modo che si possa immaginare una traiettoria privilegiata in cui collocare un’orbita stabile? Per fugare ogni dubbio in merito, Kip Thorne ha scritto un libro intitolato “The Science in Interstellar”, uscito lo stesso giorno del film che serve proprio a spiegare tutte quelle cose che, a me comune mortale con una qualche infarinatura di fisica sono sembrate inesatte. Gargantua, il nome utilizzato dal regista per designare il buco nero, mi ha ricordato l’opera di Rabelais. Nel prologo al Gargantua, splendida satira francese della prima metà del Cinquecento, l’autore ci invita a scoprire il senso nascosto del suo libro utilizzando l’allegoria medievale, per poi farsi beffe del lettore che presta fede al suo invito.

Tra le cose che non ho apprezzato vi è forse la trama, secondo me carente sotto certi punti di vista, la mancanza di spiegazioni in alcuni passi del film,  ed alcune contraddizioni. Cosa ci fa un drone indiano nei cieli americani?  Come fa Cooper a pilotare un apparecchio che non ha mai visto e come fa a calcolare le rotte intorno ai buchi neri se non sa neanche come funzionano? La contraddizione infine è espressa nel numero cospicuo di navicelle mandate nello spazio da parte della NASA nonostante la crisi mondiale. Alla fine capiamo che tutto è un pretesto per parlare dei sentimenti, e nello specifico dell’amore. Forse sì, l’unico protagonista della storia è sempre l’amore. L’amore per la figlia, l’amore della biologa Amelia Brand per uno degli astronauti scomparsi oltre il wormhole che la spinge a trovare il pianeta giusto, l’amore della figlia per il padre, e l’amore che spinge Cooper alla ricerca di Amelia nella galassia sul finale. Ho apprezzato moltissimo il personaggio creato su Matt Damon, perché fa capire come l’individuale istinto di sopravvivenza possa portare ad anteporre se stessi all’intero genere umano.

Alcune cose forse non sono riuscita a capirle, altre le ho apprezzate, altre meno, ma come diceva Federico Fellini: “Non faccio un film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno. Che è affascinante finché rimane misterioso e allusivo ma che rischia di diventare insipido quando viene spiegato”. Forse dopo Memento, la trilogia su Batman, ed Inception (per citarne alcuni), le aspettative erano troppo alte. Forse ci si aspettava davvero quel capolavoro. Forse Nolan voleva solo mostrarci il suo sogno sull’amore un po’ troppo scontato, ma su una bellissima fotografia spaziale.

Cristina Chinaski

Cristina Chinaski nasce a Catania dove tuttora risiede. Ama viaggiare, fotografare, leggere, scrivere. Ha una passione viscerale per la musica, suona il pianoforte, colleziona vinili e adora il cinema.

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