E’ nella suggestiva cornice del Palazzo San Giuliano, che si è svolta ieri mattina la nostra intervista al professore Andrea Rapisarda, docente associato di Fisica Teorica presso il Dipartimento di Fisica e Astronomia, responsabile dell’internazionalizzazione e del progettoErasmus del nostro ateneo. Ha preso parte alla nostra intervista anche la Dott.ssa Cinzia Tutino, responsabile dell’Ufficio Relazioni Internazionali. Un’intervista che ha approfondito un tematica di cui si parla con una certa continuità negli ultimi tempi, e cioè il livello di internazionalizzazione delle università italiane.
A pochi giorni dall’uscita del rapporto Censis e dall’Open Day di benvenuto agli studenti e docenti stranieri che hanno preso accordi internazionali con il nostro ateneo, si è sentito il particolare e capillare esigenza di rispondere a domande, dubbi sospesi, spesso irrisolti per la poca o mancata conoscenza del problema INTERNAZIONALIZZAZIONE. Affrontare un tema del genere non risulta facile: spesso si rischia di cadere in quella trappola mediatica in cui ci si lascia “allarmare, stupire” da informazioni (troppo spesso) sverginate dalla loro reale e sostanziale essenza, si riportano solo dati preoccupanti, che impauriscono e mal-orientano, senza toccare il problema oggettivamente, alla radice.
Per prima cosa, cerchiamo di capire cosa sia questa tanto agognata internazionalizzazione. A questa domanda, il Prof. Rapisarda risponde dicendo chel’internazionalizzazione consiste nel fatto di essere attrattivi verso studenti, docenti che stanno all’estero, quindi di richiamare all’attenzione, avere al proprio interno anche delle professionalità straniere, ragazzi che, caso a parte per l’Erasmus, frequentino e completino tutto il loro corso di laurea all’interno delle nostre università.
Aggiunge la Dott.ssa Tutino che internazionalizzazione significa anche cooperazione con le università straniere, quindi non solo flussi di studenti o docenti che si muovono ma anche una reale scambio di “best practice” con altri atenei, una reale cooperazione che implica anche l’azione di progetti congiunti, titoli congiunti, condivisione della didattica e della ricerca con i partner stranieri.
Chiarito questo primo punto, proseguiamo domandando ai nostri gentili intervistati, cos’è che spinge un Ateneo a internazionalizzarsi, perché dunque, oggi più che mai, c’è un urgente bisogno di aprire le frontiere della ricerca, delle università a un così ampio raggio. Il Prof. Rapisarda commenta: «Ci viene richiesto da un punto di vista ministeriale, infatti è tra le caratteristiche che un Ateneo deve necessariamente avere. Non possiamo restare provinciali all’interno dei nostri confini locali, oggi il mondo del lavoro, della ricerca ci permette di immetterci in un unico grande circuito e noi dobbiamo essere pronti a far fronte alle richieste che provengono da altri paesi, e dobbiamo preparare i nostri studenti ad affrontare un mercato che ormai è globale. Quindi un qualsiasi studente che studia a Catania deve poter trovare lavoro a Singapore. Succede molto spesso che molti ragazzi lascino l’Italia e trovino frequentemente occupazione in un qualche Paese straniero.»
Dunque, abbiamo capito cosa sia l’internazionalizzazione, abbiamo capito quali siano le motivazioni che spingono un Ateneo a internazionalizzarsi, adesso occorre comprendere in che modo si riesca a internazionalizzarsi, quindi individuare quegli strumenti usati (o che dovrebbero essere usati) per provvedere all’internazionalizzazione delle università. «Per prima cosa, occorre rafforzare l’offerta formativa, proponendo corsi di laurea non più esclusivamente in lingua italiana. Sono stati già avviati diversi corsi di laurea (essenzialmente magistrale) che sono interamente in inglese, offerta, quella di una pluralità linguistica, che sarà potenziata sempre più in futuro. Sono presenti corsi di laurea a “doppio titolo”, la cui validità è riconosciuta oltre i confini italiani, in quei Paesi (come ad esempio la Polonia) con cui vige un accordo di Atenei. D’altro canto, la possibilità di corsi di laurea in lingua inglese potrebbe attirare studenti provenienti dai Paesi limitrofi, ma non solo, da paesi quali India, Pakistan, Russia… che potrebbero così acquisire una formazione spendibile nei Paesi di lingua anglosassone» asserisce il Prof. Rapisarda.
Questi tipi di accordi, precisa la Dott.ssa Tutino, permette agli studenti di beneficiare di parte della loro formazione all’estero, non a caso gli accordi con gli Stati Uniti, per esempio, consentono agli studenti italiani di recarsi all’estero, appunto negli Stati Uniti , a dei costi molto competitivi rispetto a quello che è il reale costo dello studio in questi Paesi. Così, non si parla solo di un flusso in entrata, ma anche della possibilità di potenziare la propria preparazione integrando con competenze apprese all’estero. Tra l’altro, alcuni accordi sono post laurea, con la possibilità, per chi aderisce, di effettuare tirocini e stage. Andrebbero inoltre potenziati i corsi in lingua nelle nostre facoltà, non solo di inglese, ormai obbligatorio, ma anche di altre, in modo da incentivare la competitività del nostro Ateneo e implementare il piano dell’offerta formativa. Ma tutto questo richieste un costo, e se non vengono fornite adeguate risorse a fronte di tali progetti, si può fare ben poco.
Quindi, risolto il quesito sugli strumenti atti a internazionalizzare un Ateneo, ci domandiamo quali parametri vengono a essere adottati per misurare il reale livello di internazionalizzazione di un ateneo. Il prof. Rapisarda risponde puntualizzando che ogni classifica stilata (per esempio, come quella del Censis) ha i suoi criteri, il suo metro di valutazione, individua determinati parametri. Dunque Catania, secondo alcuni indicatori, si piazza in certe classifiche a un certo livello, in altre molto meglio. Questi rapporti sono dunque indicativi, bisogna leggerli come segnalatori dei punti di forza o di debolezza che OGNI ateneo ha. Continua Rapisarda :«Dal mio punto di vista è sbagliato fare delle graduatorie perché Catania può offrire molto, per esempio, per certi corsi di laurea, un po’ meno per altri, così come Padova, Milano, Bologna… Il punto è che chiaramente ogni ateneo ha i suoi pregi e i suoi difetti. Molto spesso, nello stilare delle classifiche, specialmente quelle realizzate all’estero, tra i parametri di valutazione contano il numero di premi Nobel che insegnano. Oppure si guarda all’offerta logistica: chiaramente l’Università italiana è indietro, perché è da anni che non si investe più in ricerca e formazione, a quel punto come possiamo competere con un’Università americana o con una inglese che hanno dei bilanci stratosferici rispetto a quelli italiani? Noi a stento riusciamo a pagare gli stipendi e a fare il minimo indispensabile. Quindi il Governo italiano dovrebbe capire che senza investimenti in ricerca e formazione non si può pretendere un’elevata preparazione, le punte di eccellenza ci sono sempre, non a caso i nostri studenti trovano in ogni caso occupazione all’estero, ma senza risorse, torno a ripetere, si può fare davvero poco. Ci sono paesi che anni addietro erano fortemente indietro e che oggi sono alla frontiera (pensiamo alla Polonia). Inoltre i nostri ragazzi spesso e volentieri bypassano la possibilità di valutare un corso di studi qui in Italia ma optano direttamente per l’estero. Cosa rispondere a un ragazzo che domanda “Che senso ha studiare in Italia, se tanto io il lavoro lo trovo all’estero?”. Si risponde investendo moltissimo, ma non a parole, ma concretamente, sfruttando al massimo quelle tante potenzialità che se non supportate sono destinate a perdersi.
In conclusione, non ci resta che domandare quale sia una delle possibili spiegazioni per cui, secondo il Censis, tra i mega atenei (oltre i 40.000 studenti immatricolati nell’anno accademico 2013/2014) Catania vantasse un livello di internazionalizzazione piuttosto basso (68) a fronte dei 104 di Bologna in vetta alla classifica nazionale. Il prof. Rapisarda risponde: «Abbiamo tanti difetti: concorsi a volte truccati, molta burocrazia, ma le Università italiane non sono affatto un carrozzone: abbiamo una spesa per studente che è tra le più basse d’Europa, altrettanto basso il rapporto docenti-studenti, e nonostante questo continuiamo a produrre ricerca ad altissimi livelli. Quindi il sistema se vuole, è estremamente efficiente, perché con pochissime risorse riesce a produrre tantissimo. Purtroppo non si è in grado di trattenere moltissime eccellenze. E’ bene che molti ragazzi vadano fuori ma dobbiamo essere anche noi attrattivi e far arrivare altrettante eccellenze dai paesi stranieri. Una grandissima risorsa in Italia sono proprio le persone, con le loro intelligenze e su questo dobbiamo far leva e investire.
Altro discorso, preso in considerazione dal Prof. Rapisarda è che ci sono atenei che nonostante le scarse risorse a disposizione, hanno cercato di attrarre Fondi europei. In questo senso, bisogna sicuramente migliorare: se l’Italia ci ha dato poco, l’Europa ancora può dare molto. Cercare di prendere questi fondi è fondamentale, ma per questo bisogna attrezzarsi: ci vogliono degli uffici specializzati che assolvano a questo, ci vuole personale competente (proveniente anche dall’esterno) che abbia un certa esperienza in campo, occorre conoscere le competenze che stanno dietro, fare marketing, network con altri atenei e cercare delle collaborazioni: fare rete. Dobbiamo venderci meglio, aumentare la nostra reputazione facendo emergere il sommerso, perché noi abbiamo tantissimi contatti internazionali che però non emergono a livello ufficiale, in quanto non registrati. Ecco emergere una nuova sfida per il nostro Ateneo: puntare e migliorare questo aspetto.
Nota la Dott.sa che i nostri studenti hanno due limiti: un limite culturale perché in realtà ancora oggi in Sicilia parliamo con le famiglie per far muovere gli studenti (mancata cultura all’internazionalizzazione) e un limite linguistico. Le lingue dalla scuola elementare in poi non sono insegnate a livelli molto elevati, per cui lo studente che teoricamente dovrebbe entrare all’Università con un livello di conoscenza elevato, arriva con un livello base, questo nella maggior parte dei casi, sempre per non ridurci poi a un élite di studenti eccellenti e competenti.
Si presenta inoltre un problema di tessuto dal punto di vista imprenditoriale: frequentare un’università in Nord Italia significa anche avere una serie di aziende che possono assorbire gli studenti, un tessuto imprenditoriale che qui non riesce a soddisfare le richieste lavorative di neo-laureati catanesi e che non riuscirebbe (almeno nelle attuali condizioni) ad assorbire l’eventuale flusso di entrata di ragazzi che vorrebbero formarsi a Catania . Qualcosa di buono pur sempre c’è, esordisce in conclusione il Prof. Rapisarda: «Per esempio, investiamo sul patrimonio artistico-culturale dal momento che molti studenti stranieri vengono appositamente in Italia per studiare e incrementare le loro conoscenze relative alla letteratura italiana, all’arte. Sfruttiamo quello che abbiamo e al meglio».
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