Dopo i recenti mesi passati in lockdown, è ormai comune parlare di didattica a distanza: la situazione di emergenza sanitaria ha infatti portato il mondo intero ad adattarsi a questa modalità di studio e frequenza delle lezioni. Tuttavia, non si può definire esattamente come una novità: già da molti anni sono infatti attive le università telematiche, vale a dire atenei che offrono corsi di laurea interamente online. Ma quali sono le differenze con le università tradizionali? La giornalista Milena Gabanelli ha realizzato un approfondimento per il Corriere della Sera, nel quale ha risposto proprio a questa domanda.
Università telematiche: cosa sono?
Le università online sono una realtà già dal 2003 durante il governo Berlusconi. Esse prevedono l’opportunità di frequentare corsi di laurea equiparabili a quelli offerti dalle università tradizionali rimanendo a casa, molte volte permettendo di effettuare gli esami dal proprio domicilio in modalità online.
I corsi offerti sono praticamente tutti quelli disponibili, tranne alcune eccezioni quali Medicina, Veterinaria e Odontoiatria. Per quanto riguarda gli iscritti, sono decisamente molti meno rispetto alle università tradizionali, e anch’esse ricevono finanziamenti da parte del Miur.
Le problematiche
Fin qui le università telematiche appaiono come un’offerta formativa inclusiva che permette a categorie impossibilitate a frequentare corsi di studio universitari tradizionali di ottenere un titolo che abbia esattamente lo stesso valore di quello “ordinario”. Ma non è tutto oro quello che luccica.
A partire dal 2009 sono iniziate delle analisi più approfondite sul caso delle università telematiche e la situazione che è emersa non è delle migliori. Dai risultati dello studio condotto a proposito e pubblicato nel 2013 sono infatti emerse diverse problematiche tra le quali la totale assenza di vincoli per l’ingaggio dei docenti e di criteri per la valutazione dell’offerta formativa e della ricerca, e ancora esami e CFU attribuiti in maniera inappropriata e una assente o scarsa attività di ricerca. Da questi dati è stato quindi possibile evincere una effettiva minore preparazione dei laureati, i quali però ottengono un titolo che viene riconosciuto con lo stesso valore di quello tradizionale, anche se l’università telematica risulta essere molto più semplice di quella canonica.
Il tutto senza contare che le valutazioni per le università telematiche riconosciute sono tra le più basse in assoluto, e che esse ottengono dei finanziamenti di gran lunga superiori agli effettivi costi del corso di laurea. Basti pensare che corsi di laurea con un costo inferiore ai 3mila euro hanno ottenuto dal Miur finanziamenti dai 292 ai 685mila euro. Inoltre, anche le regole sono per legge meno rigide nel caso delle università telematiche: così, se un corso di laurea in un’università canonica prevede un minimo di 9 docenti dei quali 5 di ruolo, per le telematiche ne bastano 7 dei quali 3 di ruolo. E ancora, per le tradizionali è previsto 1 docente di ruolo ogni 36 iscritti, mentre per le telematiche il rapporto passa inaspettatamente a 1 per 521 studenti.
Considerando quanto emerso e il fatto che delle regole diverse sono accordate alle università telematiche, mettendole di una sorta di “categoria protetta”, la domanda posta da Milena Gabanelli è quindi la seguente: è giusto che ai fini concorsuali il valore delle lauree telematiche sia lo stesso di quelle tradizionali? Il timore è infatti che l’ammirevole tentativo di inclusività iniziale si stia infatti trasformando in una vera ingiustizia nei confronti del mondo accademico canonico. Non basterebbe mantenere entrambe le modalità con caratteristiche e regole più simili tra loro, nel limite del possibile, in modo da garantire un sistema più egualitario e finalmente definibile come “corretto”?