Spari e colpi di pistola in una scuola degli Stati Uniti. È l’ennesima volta che succede, e forse nemmeno l’ultima. I colpi sembrerebbero partiti accidentalmente: a farne le spese due studenti, di cui una è morto poco dopo essere stata colpita. Aveva solo 17 anni.
Columbine. Sandy Hook. Parkland. In molti conoscono questi nomi, la cronaca li ha ripetuti fino allo sfinimento nei segmenti esteri accompagnando al crescente numero di vittime le terribili immagini di ragazzini in lacrime, edifici evacuati da agenti di polizia dallo sguardo spento.
Sentiamo parlare di sparatorie nelle scuole troppo spesso e alla fine la questione diventa semplice routine, eventi periodici da associare agli Stati Uniti, come il Super Bowl e i rodei, il folclore a stelle e strisce che interessa a pochi e “passami un po’ il telecomando che cambio canale”. Accade negli USA, mica qui. Ne siamo sicuri?
Ignoriamo per un attimo l’NRA e quanto facile sia per un diciottenne mettere le mani su un fucile d’assalto, argomento che a quasi 19 anni dalla strage alla Columbine è ancora vivo nelle parole di Sue Klebold, madre di Dylan Klebold, uno dei due giovani omicidi-suicidi responsabili della strage della Columbine avvenuta il 20 aprile 1999: “È stato spaventosamente facile per un ragazzo di 17 anni acquistare armi, legalmente o illegalmente, senza il mio permesso o conoscenza” e, come hanno dimostrato gli avvenimenti delle ultime settimane (l’ultima risale proprio alle prime ore di questa mattina in una scuola dell’Alabama) “è ancora spaventosamente facile”.
Tralasciamo il fattore della distanza che separa geograficamente il nostro Belpaese dalle numerose fiere ed esposizioni militari, le emittenti televisive che utilizzano il secondo emendamento come scudo dietro il quale nascondere veri e propri arsenali a portata di mano di ragazzini e bambini. E di certo evitiamo di inciampare nel tranello del dibattito su “armi ai professori: sì o no”, che sembra essere diventato il centro attorno al quale gravitano tutti i problemi di una nazione che conta più armi pro capite che assicurazioni sanitarie.
“Queste cose succedono in America, non qui”, è vero e lo sarà fino al momento in cui accadrà; quando un gruppo di bambini curiosi si passeranno di mano in mano la pistola del padre, lasciata incustodita, e un colpo partirà accidentalmente; o accadrà quando si vorrà giocare a “regolare i conti”, perché dopotutto, si sa, in certi ambienti è mangia o vieni mangiato. Continuerà ad accadere ovunque, in qualsiasi momento, in qualsiasi villaggio remoto dell’Uzbekistan o metropoli europea, perché è la legge dei grandi numeri a imporlo. Fortuna, sfortuna, e di tanto in tanto anche la volontà.
Le armi non possono sparire, è irrealistico. Immaginate cosa sarebbe accaduto se, durante l’Età del Bronzo, qualcuno avesse pensato di liberarsi delle lance per paura che ci si potesse impalare involontariamente.
È il dialogo a fare la differenza. “Quando ripenso a tutto ciò che è successo vedo che la spirale della disfunzionalità in mio figlio forse si è sviluppata in un periodo di due anni un tempo ampiamente sufficiente per aiutarlo, se solo qualcuno avesse capito che aveva bisogno di aiuto e avesse saputo cosa fare”, continua Sue Klebold nella sua conferenza TEDMED a novembre del 2016.
Argomenti come armi, igiene mentale e violenza sono diventati dei tabù negli ultimi anni, discorsi da non affrontare apertamente in famiglia o nelle scuole, come se si avesse paura di liberare tutti i mali del mondo soltanto a parlarne. I bambini e i ragazzi apprendono dall’esperienza – e di certo l’ultima che si augurerebbe a chiunque è di dover vivere un evento traumatico come quello di una sparatoria. L’unico modo rimane quindi quello di aprire un dialogo sincero, smettere di tappare le orecchie a chi riteniamo “troppo giovane” o “non ancora pronto”, nella speranza di salvaguardarli. Non potremo farlo in eterno. Ma possiamo dar loro gli strumenti per difendersi, per apprendere ed evitare di ripetere gli stessi errori.