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Ricorrono oggi i quarant’anni dalla strage di Via Carini nel Palermitano. Quel giorno morì il prefetto di Palermo e generale dei carabinieri, Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Quanto accaduto è qualcosa di già noto, anche se non tutte le dinamiche della strage ad oggi sono del tutto chiare. Ma è cambiato qualcosa da allora? I cittadini si sono responsabilizzati alla lotta contro la mafia? Abbiamo parlato di tutto questo con Matteo Iannitti, giornalista e Coordinatore Attività di Comunicazione presso Arci Catania.
“Ricordare per non riabilitare i mafiosi”
Ai microfoni di Liveunict Matteo Iannitti sottolinea quanto è importante ricordare quanto accaduto perché: “Dimenticare significherebbe riabilitare i mafiosi. Oggi chi è implicato in vicende di mafia è tornato ad essere padrone della scena politica, c’è il tentativo di far apparire la mafia come una questione risolta, superata, non più attuale e soprattutto innocua. Non è così”.
In particolare, è importante ricordare dalla Chiesa perché: “Nella sua ultima intervista, prima di morire, il 10 agosto 1982, a Giorgio Bocca su La Repubblica, il Generale Dalla Chiesa, allora Prefetto di Palermo, dichiarò che la mafia era diventata forte anche a Catania. Per mostrare quanto dichiarato, il Prefetto di Palermo citò le quattro imprese edili catanesi, quelle dei cavalieri del lavoro Costanzo, Graci, Rendo e Finocchiaro che facevano incetta di appalti nella Sicilia occidentale, imprese collegate al mondo mafioso”.
Dalla Chiesa tramite queste dichiarazioni ha demolito tutte le retoriche sulla non esistenza della mafia a Catania, ed ha denunciato il legame tra le imprese catanesi e Cosa Nostra. Ricordare tutto questo vuol dire: “Guardare con altri occhi il potere politico della nostra città, la classe imprenditoriale catanese. Significa tornare a riconoscere la borghesia mafiosa che ancora governa il nostro territorio”.
L’impegno civile da parte dei ragazzi? “Non sufficiente”
Negli ultimi anni la lotta alla mafia è cambiata in maniera radicale: il cambiamento deve ripartire dalle scuole, dalle associazioni ma soprattutto dalle nuove generazioni, che devono essere sensibilizzate e coinvolte nel tema.
Secondo il nostro intervistato: “Gran parte del nostro Paese, è in guerra contro la mafia da ottant’anni. Questa guerra ha i suoi miti, i suoi eroi, le sue battaglie, i suoi nemici. Ma soprattutto in questo scontro ci sono storie. Storie che continuano ad essere raccontate. Alcune più evocative di altre, che magari lasciano maggiormente affascinati, anche per quello che hanno generato nella società”.
Molte volte, però, sottolinea Iannitti: “Quando come siciliani giovani portiamo nelle scuole la nostra esperienza di giornalismo e attivismo contro la mafia, una delle prime domande che facciamo è “Chi conosce Giuseppe Fava, giornalista ammazzato dalla mafia e fondatore del giornale I Siciliani?”. Tanto alle elementari quanto agli ultimi anni di scuola superiore, in pochissimi rispondono, lo stesso vale anche per Falcone e Borsellino”.
Da quanto dichiarato dal nostro intervistato, si evince che l’impegno civile contro la lotta alla mafia non è presente nei giovani. Iannitti evidenzia: “Altre volte si limita ad essere una liturgia senza senso. La memoria del movimento antimafia così come la lotta di ogni cittadino contro la mafia va attualizzata, intrecciata con i temi centrali della nostra società, in una logica intersezionale”.
Il contributo delle associazioni
Per combattere un problema sociale così grande come la mafia, è necessario il contributo delle associazioni. Nel catanese due realtà molto solide sono I Siciliani e Arci.
Secondo Iannitti: “La memoria non basta. Per combattere la mafia, serve indagare e denunciare il potere mafioso presente, quello che oggi domina le nostre città. La situazione nel catanese purtroppo è veramente complessa: è presente una percentuale di dispersione scolastica del 20%. in molti quartieri lo Stato e le amministrazioni tollerano altissimi livelli di criminalità e di analfabetismo, negli ultimi anni numerosi imprenditori hanno divorato le risorse pubbliche destinate alla comunità, il nostro territorio è oppresso dal potere mafioso”.
Bisogna partire da qui, secondo l’intervistato: “Denunciare e agire. Negli ultimi anni, abbiamo scoperto che circa l’80% dei beni confiscati alla mafia (che lo Stato dovrebbe valorizzare socialmente per servizi alla comunità) sono completamente abbandonati o, in molti casi, ancora occupati dai mafiosi che hanno subito la confisca. Ecco, in questo caso la nostra azione non è stata solo quella di denunciare ma anche di praticare l’obiettivo, gestire un bene confiscato alla mafia, ovvero il Giardino di Scidà dimostrando che può essere restituito alla collettività.
Lo scorso anno è stata organizzata una marcia dal nome “Le Scarpe dell’Antimafia”. Vogliamo – dichiara l’intervistato –che i soldi confiscati ai mafiosi, sono miliardi di euro, vengano destinati a progetti sociali, alla creazione di opportunità di lavoro per chi non ne ha”.
I cittadini? “Non devono fermarsi alla commemorazione ma devono fare i cittadini”
Commemorare quanto accaduto non basta: “Il nostro Paese ha in servizio migliaia di donne e uomini onesti che a volte, solo per aver svolto scrupolosamente e onestamente il loro lavoro, sono costretti a pagare con la vita. Poliziotti, magistrati, giornalisti, sindacalisti, attivisti. Ogni morte, ogni morte civile, è una sconfitta della nostra democrazia. Una sconfitta contro la mafia. Le cerimonie e l’inserimento del nome nella toponomastica non risarciscono né le famiglie né la società del lutto subito.
Inoltre, la lotta alla mafia riguarda tutti i cittadini, che con le loro azioni possono cambiare le cose. Secondo Matteo Iannitti: “I cittadini devono fare i cittadini, non clienti, non mendicanti, ma i cittadini. Devono essere protagonisti della vita pubblica e civile delle nostre città. Le Istituzioni devono chiudere le porte al malaffare e alla corruzione e far sì che la ricchezza del nostro territorio sia distribuita equamente a tutti i cittadini”.