Il tempo tanto cambia, altrettanto cancella. L’avvento della tecnologia non ha soltanto modificato, e in qualche modo semplificato, numerosissimi aspetti di vita ma ha anche contributo a modificare l’elenco di mestieri un tempo “in voga” in Sicilia. Di quali si tratta? Eccone alcuni esempi.
Mestieri femminili in Sicilia: C’erano una volta…
All’indicazione dei mestieri un tempo diffusi nell’Isola ed ora praticamente scomparsi, andrà premessa una distinzione. Gli antichi impieghi “siciliani” variavano spesso a seconda del sesso di chi li ricopriva. In altre parole esistevano alcuni lavori prettamente femminili, altri strettamente maschili.
“Pilucchera”
Tra i primi, spicca la “pilucchera”. Si tratta del termine siciliano con cui si indicava la pettinatrice ovvero colei che veniva in soccorso di altre donne, abituate a portare i capelli lunghissimi ma incapaci di tenerli in ordine. La pilucchera, spesso anziana, pettinava ed acconciava le chiome delle clienti. Tra le acconciature più ambite spiccavano trecce e “tuppi”. Il lavoro della pettinatrice, tuttavia, non finiva qui. Il suo arrivo nelle abitazioni rappresentava spesso l’inizio di un momento di intrattenimento. Di fatto, per non annoiare le donne che l’avevano scelta, la pilucchera raccontava vicende e segreti altrui, appresi tra una pettinata e l’altra.
“Lavannera”
Oggi esistono lavatrici e asciugatrici e risulta alquanto difficile credere che, un tempo, le funzioni riservate a questi elettrodomestici venivano svolte da donne. Più in particolare dalle “lavannere”, ovvero le lavandaie. Queste figure lavoravano per conto di altre famiglie, spesso facoltose. Le lavandaie aggruppavano i panni di tutti i membri che, di lì a poco, sarebbero stati sfregati con parecchia energia sulla cosiddetta “balata”, asse posizionata dentro grandi tinozze chiamate anche “pili”. Spesso queste donne si recavano presso i corsi d’acqua o i lavatoi pubblici per rendere pulite e profumate le stoffe.
Ricamatrice
C’era, poi, chi si dedicava all’arte del ricamo, la stessa che nel 2007 è stata inserita nel R.E.I. della Regione Sicilia (il Registro delle Eredità Immateriali dell’UNESCO). La creazione di manufatti, spesso donati da una generazione alla successiva, soprattutto in estate avveniva sul pianerottolo di casa e quasi mai in solitudine. Capitava frequentemente che donne di diversa età si riunissero per scambiarsi i disegni ed i motivi, provare le moltissime tecniche del ricamo e chiacchierare: così, in un umile scenario si condivideva un momento di socialità.
Gli antichi mestieri maschili
“Panararu”
Agli uomini spettavano altri compiti. Per esempio qualcuno realizzava ceste e panieri, intrecciando verghe di ulivo e canna tagliata in strisce: si fa riferimento al “panararu”, ovvero il cestaio. Il nome dell’impiego è da collegare al termine con cui in dialetto siciliano si indica il cesto, ovvero “panaru”.
“Ntrizzaturi”
Gesti simili a quelli del panararu compiva “u ‘ntrizzaturi”, ma per dar vita a prodotti diversi. Di fatto questo si occupava di intrecciare foglie secche di palma nana per creare cappelli a larghe tese, indossati soprattutto dai contadini, borse e “muscalori”, ventagli circolari adoperati soprattutto da pescivendoli e macellai per scacciare gli insetti dalle carni. Oggetti di uso quotidiano, questi, all’epoca molto utili.
“Vanniaturi”
Anticamente si scorgevano in strada, più spesso in una del centro del paese. I “vanniaturi” (o “abbanniaturi”) annunciavano, o meglio urlavano, le notizie più importanti e gli eventi da non perdere.
Il tono alto di voce serviva per richiamare l’attenzione dei residenti: dopo quel “Sintiti…sintiti” tutti avrebbero appreso informazioni circa la festa del paese, il fatto di cronaca, l’ultima disposizione del Comune.
“Niculiziaru”
Quel che non tutti sanno è che, alla fine del 1800, Catania si distinse tra le province siciliane per la produzione di ottima pasta di liquirizia che venne ben presto esportata all’estero.
Per tale ragione non è per certo difficile credere che esistesse una figura addetta alla raccolta di questa pianta erbacea perenne, soprattutto presso la Piana di Catania: alcune fonti la indicano con il nome di “niculiziaru”.
Armato di una zappa adatta, questo lavoratore riusciva a scavare diversi chili di radici al giorno. Dopo la raccolta, quelle raccolte venivano legate in fasci e successivamente ripulite dalla corteccia e messe al sole dalle donne. Infine avveniva la consegna alla fabbrica più vicina, quella che si sarebbe occupava dell’estrazione del succo.
“Cardaturi”
Per mezzo di un cardo, uno speciale pettine, “u cardaturi” sbrogliava i grumi di lana dei materassi. Di fatto, con il tempo e per via della costante pressione, la fibra tessile si infeltriva, perdendo volume oltre che morbidezza. A questo punto entrava in gioco questo esperto, non raro in Sicilia. “U cardaturi” apriva “u matarazzu” (e spesso anche i cuscini), faceva passare la lana dal proprio prezioso strumento fino a renderla come nuova, e poi ricuciva il tutto.
“Conza piatti o lemmi”
Nulla si getta via, tutto si ripara: potremmo facilmente immaginare che questo fosse il credo fondamentale del “conza piatti o lemmi”. In effetti il lavoro di questo artigiano, ormai caduto nel dimenticatoio, consisteva nel metter insieme cocci e dare nuova vita a questi oggetti.
Il conza piatti, munito di trapano, praticava dei piccoli fori sulle parti rotte: da questi faceva solitamente passare il filo di ferro, poi da stringere per far sì che le parti messe insieme combaciassero. Infine ricopriva danno e riparazione con una leggera mano di stucco bianco in polvere.