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“Studenti soli e lasciati ai margini”: la denuncia di un liceale catanese

didattica a distanza
La lettera di uno studente liceale catanese sulle difficoltà e le paure dei giovani nell'anno della DaD, tra marginalità nel discorso politico e voglia di esserne protagonisti.

La chiusura delle scuole tiene i ragazzi lontani da compagni di classe e insegnanti ormai da dieci mesi, se si fa eccezione per le poche settimane all’inizio dell’anno scolastico. Una situazione che pesa soprattutto sui liceali, come L. N., studente del liceo Nicola Spedalieri di Catania. La redazione di LiveUnict riceve e pubblica la sua lettera aperta, al tempo stesso testimonianza e denuncia della situazione.

“La (r)esistenza di uno studente nel 2020 può essere riassunta con due parole: solitudine e speranza. Soli senza voler essere solitari, speranzosi senza sapere il perché. Viviamo in un paese che cannibalizza i propri figli, non tramite gesti particolari ma, più semplicemente, relegandoli alla marginalità. Cresco in un’Italia in cui i politici, i partiti, le istituzioni non guardano più a noi se non in rari casi di strabismo. Siamo definiti la generazione degli addormentati, dei pigri, dei senza valori. A volte sono arrivato anche a chiedermi se, forse, abbiano ragione.

Dentro di me sento dei vuoti: i miei anni, quelli che tutti ricordano con nostalgia, mi vengono strappati con la stessa violenza di un lupo che scarnifica la sua preda. Non vi è nulla a cui aggrapparsi, non vi è qualcuno in cui riconoscersi, non vi è una qualche personalità dalla quale sentirsi rappresentato.

Il 20 più che un anno è stato la decima cerchia: la chiusura, l’angoscia, la solitudine, i morti, l’esplosione di entusiasmo per le prime lezioni in DAD disinnescata immediatamente dalla constatazione che quella non fosse neanche lontanamente scuola. E poi l’estate, la speranza, il rientro a scuola, i sorrisi sotto le mascherine seguiti però, in causa venenum, come fosse la trama di uno dei grandi poemi dell’antichità in cui la fine riprende i fatti iniziali, con un percorso che sembra un cerchio, dal ritorno al punto di partenza. E di nuovo a casa, guardando delle webcam come fossero occhi ed uno schermo come fosse un corpo.

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È vero, noi non moriamo di Covid, ma i nostri cari sì. Oltre alle ordinanze, ai decreti, ciò che angoscia di più è la paura. Il terrore di fare da tramite tra il virus e le persone a noi vicine. Questo non significa solo banalmente non poter andare ad una festa o in discoteca, non vedere i propri amici e compagni. Purtroppo tutto ciò fa avere timore del luogo che fino a ieri consideravamo seconda casa: le nostre scuole.

Tante volte sentiamo proclami su come queste siano sicure, come non siano veicoli di contagio, ma sappiamo tutti qual è la nostra Teutoburgo: i trasporti. Io non ho un mezzo, non ho genitori che possano portarmi a scuola e dunque come molti miei compagni mi affido al trasporto pubblico che, in era Covid, significa giocare alla roulette russa: uno starnuto da un lato ed un colpo di tosse dall’altro, la distanza interpersonale pari a quella di una cozza al suo scoglio favoriscono la nascita, anche nei più temerari, di sentimenti alquanto ipocondriaci.

Ma alla fine per tanti, per troppi, noi siamo solo gli untori sconsiderati e dunque nessuno parla di tutto questo. Sotto l’emergenza se ne cela una più sottile e difficile da captare ed è quella che riguarda noi ragazzi. Sarebbe da sconsiderati anteporre questi problemi al contagio del virus ma mi sembra lecito chiedere: è stato veramente fatto tutto il possibile per provare a tenere le scuole aperte? È veramente la scelta giusta illuderci di mese in mese sbandierando una riapertura che però non arriva mai.

Spesso noi giovani veniamo apostrofati come “il futuro della società”, ma io, con tutto il rispetto, vorrei rappresentarne anche il presente. Perché, secondo lei direttore, sento che siano in molti a remare contro questo mio desiderio?”


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