Qualche tempo fa alcuni esponenti del nostro governo hanno messo a punto un testo volto a presentare un progetto sull'”autonomia responsabile”degli atenei forse nuovo ma destinato a sollevare vecchie critiche.
Un documento apparentemente innocuo ed ancora dubbio in quanto “prima bozza” (per citare la definizione data dal ministro dell’Istruzione Marco Bussetti) ma completa in ogni sua parte ed inviata ad inizio maggio dagli uffici del ministero alla Conferenza dei rettori.
Secondo quanto trapelato nelle ultime ore, tuttavia, l’iniziativa sembrerebbe già esser saltata. La notizia del fallimento dell’ultimo tentativo attraverso cui il governo desiderava intervenire sul sistema universitario arriva da Giuseppe Valditara, capo Dipartimento dell’Università, pronto a dichiarare l’archiviazione della bozza. Ma cosa è accaduto? Sembrerebbe che la decisione sia frutto del duro scontro e della conseguente rottura tra Daniele Livon, direttore generale del Miur per l’Università a cui la realizzazione della riforma era stata attribuita erroneamente , e lo stesso Valditara, suo superiore e (a quanto pare) reale ideatore del documento.
La bozza
Sarebbe lecito, a questo, punto chiedersi come sarebbe andata se l’idea lanciata avesse continuato a fare il suo corso. In primo luogo, è necessario precisare che la bozza fino ad ora citata nasce dalla volontà di avviare una sperimentazione volta ad offrire numerose libertà e, dunque, maggiore autonomia, alle università italiane. Tutte? Sembrerebbe proprio di no. Secondo quanto indicato dallo stesso testo, infatti, solo gli atenei più meritevoli e virtuosi avrebbero potuto presentare i progetti sperimentali (di durata compresa fra i tre e i cinque anni) che, se approvati, si sarebbero trasformati in agevolazioni concrete. Il progetto così delineato, a prima vista, non potrebbe che assumere le sembianze di una buona idea ma è importante non giungere a conclusioni affrettate e analizzare prima i criteri scelti per la selezione.
Ogni ateneo, infatti, per sperare di essere etichettato come “meritevole” avrebbe dovuto fare i conti con delle percentuali e rispettare almeno tre parametri sui totali riportati di seguito:
- Almeno il 7% dei laureati in corso dell’ateneo con 12 crediti formativi per le lauree triennali oppure 18 crediti formativi per le magistrali ottenuti all’estero;
- Riduzione del tasso di abbandono di studenti nel passaggio dal primo al secondo anno di una laurea triennale o magistrale;
- Almeno il 10% di studenti del primo anno con diploma di scuola secondaria superiore conseguito fuori regione in misura;
- Almeno l’1% di studenti stranieri con diploma conseguito all’estero;
- Il 15% ( o più) di studenti del primo anno della laurea magistrale provenienti da un altro ateneo;
- Tasso di occupazione dei laureati triennali a 12 mesi dal conseguimento del titolo non inferiore al 50%;
- Tasso di occupazione dei laureati magistrali almeno pari al 50% ( a 12 mesi dalla laurea) e al 70% (a 36 mesi dal conseguimento dello stesso titolo);
Il pensiero di un docente
Chiunque abbia di fronte tali dati, certo, sceglierà di giudicarli come preferisce ma i lettori consapevoli dello storico divario Nord-Sud e, di conseguenza, dell’esistenza di realtà universitarie tutt’altro che identiche potranno credere che si tratti di principi volti ad equilibrare le risorse ed offrire pari opportunità a tutti?
Abbiamo scelto di porre questa domanda al professore Felice Rappazzo che da anni insegna Letteratura italiana contemporanea e Letterature europee moderne presso l’Università degli Studi di Catania: una figura autorevole che, durante la sua lunga carriera, è divenuto spettatore e testimone dei numerosi cambiamenti del sistema universitario.
Grazie alle sue parole, comprendiamo come il progetto di “autonomia responsabile” non sia così originale come si crede, ma rappresenti solo l’ultimo di una serie di tentativi volti, forse, a raggiungere un medesimo obiettivo. E non è così assurdo credere che un’idea che abbia dei precedenti possa, seppur momentaneamente accantonata, ripresentarsi in futuro sotto vesti diverse.
” Questo documento non rappresenta una sorpresa – spiega il professore. – Sono operazioni che vanno avanti in maniera sistematica da anni e la cui radice va riscontrata nella legge Gelmini del 2010 che, a sua volta, va fatta risalire alla riforma Berlinguer del 1999 che istituiva il 3+ 2. La legge Gelmini, che non riguarda l’assetto generale dell’università ma gli ordinamenti didattici, si presenta come legge di riforma ma, in realtà, riforma ben poco. Segue e persegue la logica dello smantellamento del sistema universitario come sistema nazionale e comporta, oltre ad alcune forme organizzative come la soppressione delle facoltà e l’istituzione dei dipartimenti, una serie di effetti.
La questione del meccanismo premiale per le università virtuose nasce proprio così e con lo scopo di ridurre corsi e docenti. Seguendo la legge, i docenti universitari andati in pensione, per esempio, venivano sostituiti nella misura del 2 su 10 ma, anche in questo caso, i nuovi docenti andavano assunti nelle università virtuose, ovvero quelle con un favorevole rapporto studenti-docenti, un certo numero di studenti in corso ed un numero alto di occupati a pochi mesi dalla laurea. È facile capire che già questo meccanismo premiava automaticamente i grossi e potenti atenei.”
Non è complicato, poi, credere che i risultati delle università varino in relazione ad un contesto economico ed un assetto territoriale differenziati. Il divario tra atenei del Mezzogiorno e le università del resto della Penisola finisce per essere specchio di quello macroscopico tra Nord e Sud: un fenomeno che nasce nel 1861 con la stessa Unità d’Italia e che i vertici del governo, fino ad ora, non hanno arginato ma, forse, aggravato.
“L’articolo 3 della Costituzione (comma 2) dice che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono la libera e piena espressione del cittadino e anche le differenze territoriali: lo Stato dunque, dovrebbe operare in ogni settore e riequilibrare le risorse. Quando ero studente io – continua il docente – l’Università di Catania poteva cooperare con le altre senza particolari difficoltà: l’effetto riequilibratore nei finanziamenti e nella circolazione dei docenti, adesso bloccata, forniva anche i nostri atenei di docenti di grande prestigio nazionale e non poneva noi in difficoltà. Certe leggi, invece, hanno in sé un nucleo di incostituzionalità perché vanno contro questo sistema di riequilibrio.”
Certo, sarebbe sciocco credere che dalla sola Riforma Gelmini o da altre misure ad essa analoghe dipenda il presente ed il futuro delle università: come ci spiega il professore Rappazzo, sull’assetto di serie A o B influiscono innumerevoli fattori, quali la mancanza di una legge sul diritto allo studio in Sicilia, il sistema di deroghe o quella sorta di colonialismo interno per cui ha più potere chi riesce a comprare le élite locali tramite corruzione o cooptazione. Il considerare altre ragioni, tuttavia, non può cancellare l’assurdità di alcuni dei criteri racchiusi nella “bozza Valditara”, da molti sono stati considerati una vera tagliola per le università del Mezzogiorno.
” Si tratta di criteri apparentemente obiettivi ma, in realtà, assolutamente ipocriti – rivela il professore. – Si pensi alla questione del 15% di studenti del primo anno della laurea specialistica magistrale che provengono da altri atenei. Se l’Università è collocata vicino alle frontiere è chiaro che il tasso di giovani provenienti da altri paesi risulterà più alto – prosegue il docente – .Altrettanto assurda risulta la percentuale minima di studenti al primo anno della laurea magistrale provenienti da altri atenei: sappiamo che la fuga dalle università del Mezzogiorno dopo la triennale è un fatto non solo reale ma già avvenuto. Solo quello del ridotto tasso di abbandono dal primo al secondo anno potrebbe risultare un criterio neutro, ma solo nel caso di una buona organizzazione dell’ateneo.”
Se la bozza fosse divenuta legge e se gli atenei vincitori della selezione fossero stati casualmente quelli del Nord, avrebbero potuto ottenere alcuni vantaggi, quali la libertà di sperimentare nuovi organi di governo o diverse agevolazioni per i docenti. Sarebbero migliorate, dunque, le loro già ottime condizione mentre chi studia al Sud avrebbe continuato a porsi la domanda: ” Restare qui significa accontentarsi?”
“Tutti gli atenei del Mezzogiorno hanno certamente un tasso di organizzazione più basso che dipende da molti elementi e, tra tutti, dal contesto. La ragione per cui molti studenti vanno fuori, tuttavia, è che trovano o credono di trovare un’organizzazione migliore: talvolta è vero, ma non sempre. Spesso l’unica differenza sta nel fatto che il nome autorevole di certe università consente allo studente lì laureato di avere, forse, una carriera più semplice – prosegue il professore Rappazzo-. Tuttavia, non c’è nessuna ragione per credere che la qualità dello studio delle nostre università sia più scadente di quello che si fa altrove, almeno per ora. Temo, tuttavia, che le cose potrebbero cambiare in caso di futuro accorpamento degli atenei o della continua precarizzazione del corpo docenti”.
Il pericolo rappresentato dall’ultima trovata del governo sembra, almeno per il momento, esser stato scansato ma più per una disputa interna che per un senso di giustizia. Un testo come quello proposto da Valditara e che sembra profumare di meritocrazia resta, in ogni caso, un campanello d’allarme ed una minaccia che dovrebbe innescare delle riflessioni, almeno in noi studenti.
“Dobbiamo, in primo luogo, cancellare dal vocabolario la parola ‘meritocrazia’, ben diversa da ‘merito’– sostiene, infine, il professore- .La meritocrazia è un aspetto deformato e deformante del merito e un parola che , pur nascendo con lo scopo di contrastare ogni forma di nepotismo, indica che è il potere è di chi si sostiene abbia, per i più svariati motivi, qualche merito. Ecco, così non è perché il vero merito è di tutti coloro che studiano e compiono il loro dovere. Magari qualcuno sarà più preparato, avrà basi o intelligenze migliori ma ciò non vuol dire che gli altri vadano esclusi. Al contrario è necessario aiutare chi è più in difficoltà, che si parli di studenti o università.
Oggi è in crisi la consapevolezza “politica”, ovvero l’appartenenza alla comunità: la salvezza individuale sembra venire prima di quella collettiva ma in realtà la prima non può esistere senza la seconda, se non occasionalmente. Di fronte al tentativo di scorporare la società, lo studente ha il grosso compito di svegliarsi e pensare in termine di gruppo, senza sgomitare né attendere ma cercando di maturare, ovvero acquisendo consapevolezza generale. È vero, molti giovani vanno via e tale fenomeno assottiglia il nervo sociale ma chi resta può avere l’opportunità di riorganizzarsi, ovvero di operare e farsi collettivamente sentire: e di fronte ad un decreto come questo, la voce studentesca è fondamentale.“