Nell'era della rivoluzione digitale, delle stories e dei post condivisi, ogni contenuto può essere oggetto di verifica da parte delle aziende e dei datori di lavoro.
L’avvento dei social network e la loro costante innovazione hanno apportato delle modifiche alle abitudini quotidiane di ognuno di noi. Consultare la bacheca Facebook o visionare l’home page di Instagram sono solo alcune delle azioni che vengono compiute ormai quotidianamente dalla maggior parte della popolazione mondiale. I social network sono anche degli strumenti utili e funzionali alla ricerca di un nuovo lavoro: sono divenuti delle vetrine attraverso le quali dare un’immagine pubblica di sé.
È ormai noto, infatti, che almeno un terzo degli addetti alle risorse umane controlli gli account social dei candidati durante la fase di valutazione. La ragione principale di tale ricerca è venire a conoscenza dell’immagine che il possibile dipendente dà di sé attraverso un canale pubblico e, allo stesso tempo, conoscere meglio il candidato, al di là del suo curriculum e delle sue competenze tecniche.
La relazione tra i contenuti postati dal candidato su un social network e la possibilità di ottenere il lavoro per cui ci si è candidati è più stretta di quanto si possa credere: contenuti inappropriati, commenti discriminatori e post sull’uso di droga o stupefacenti sono solo alcuni dei comportamenti che portano alla creazione di un profilo social non professionale. I comportamenti tenuti sui social sono oggetto di osservazione non solo da parte del recruiter, ma anche del datore di lavoro.
Pertanto, un dipendente non potrà condividere sui social comportamenti illeciti o denigrare l’azienda e il proprio datore di lavoro. La cronaca attuale, infatti, è colma di casi di dipendenti licenziati per un tweet o un post su Facebook.
Ci sono dei limiti su ciò che il datore di lavoro è autorizzato a scoprire attraverso i social, ma ciò non consente al dipendente di dire ciò che vuole sul proprio manager o datore di lavoro. Spesso accade che le lamentele, piuttosto che rimanere private, vengano pubblicate su Facebook, Twitter o via chat e diventino dei feedback negativi pubblici. Si pensa che le critiche fatte online siano protette dalla libertà di parola e di espressione e che nessuno potrà agire per le parole dette.
Tali comportamenti, invece, possono avere ripercussioni sulla propria stabilità lavorativa e sono punibili per legge se danneggiano oggettivamente la reputazione del datore di lavoro; provocano rifiuto, riluttanza o incapacità degli altri dipendenti di lavorare; creano difficoltà oggettive al datore di lavoro nel gestire correttamente la propria attività. In tali casi, si offende la reputazione altrui o si scredita l’azienda, incorrendo nel reato di diffamazione ex art. 595 del codice penale.
La Corte di Cassazione si è pronunciata, a tal proposito, con la sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018. Ha stabilito che le critiche offensive del lavoratore postate sulla propria bacheca Facebook creano un grave danno all’immagine aziendale ed hanno natura diffamatoria tale da giustificarne il licenziamento.
La condotta posta alla base del licenziamento consisteva in affermazioni pubblicate dalla lavoratrice sulla propria bacheca virtuale di Facebook in cui esprimeva disprezzo per l’azienda e per il suo datore di lavoro, anche se non ne era esplicitato il nome.
Secondo la Corte di Cassazione, la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso della bacheca di un social network integra un’ipotesi di diffamazione, in quanto ha la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Postare un commento su Facebook, infatti, equivale a pubblicizzarlo e diffonderlo perché il mezzo utilizzato è idoneo a determinare la circolazione del commento tra un gran numero di persone. In tal modo, viene meno il rapporto di fiducia tra datore e lavoratore ed è giusta causa di recesso del rapporto di lavoro.
Se nella maggior parte dei casi i problemi riguardano il contenuto dei messaggi pubblicati, talvolta è rilevante il tempo che il dipendente trascorre sui social durante le attività lavorative. Secondo le sentenze più recenti, anche queste ipotesi costituiscono giusta causa di licenziamento.
La Corte di Cassazione, in una sentenza del 2015, ha dichiarato e accertato la validità di un licenziamento. In questo particolare caso, il datore di lavoro, sospettando che il dipendente tralasciasse le proprie mansioni per dedicarsi al proprio profilo Facebook, aveva creato un account falso con l’obiettivo di smascherare il lavoratore e confermare i propri sospetti.
Il dipendente era caduto nella trappola e aveva iniziato ad inviare messaggi al nuovo contatto, anche durante l’orario di lavoro. A questo punto, era scattato il licenziamento con conseguente impugnazione da parte del lavoratore, per i controlli occulti considerati illegittimi e lesivi della riservatezza del dipendente. La Corte di Cassazione ha, però, confermato la validità del licenziamento, considerando legittimi i controlli occulti se questi mirano a tutelare i beni del patrimonio aziendale.
La creazione dell’account falso, infatti, era diretta a porre fine ad una condotta che stava mettendo a rischio il regolare funzionamento e la sicurezza dell’impianto al quale il lavoratore era addetto. Secondo la Cassazione, questi obiettivi prevalgono sul diritto del lavoratore alla riservatezza e non costituiscono una violazione della sua dignità personale e lavorativa.
Questi accertamenti, però, devono essere effettuati mediante modalità non eccessivamente invasive e nel rispetto delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, secondo i canoni della correttezza e della buona fede.
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