Nata nella città polacca di Łódź il 25 gennaio 1913 e figlia unica di Baruck e Rozalia Herszkowicz, Dora Klein è una delle donne ebree sopravvissute alla Shoah.
Grazie al lavoro del padre, ha potuto ricevere una buona istruzione e intraprendere gli studi in Medicina, prima presso la nuova facoltà a Bratislava, e poi all’Alma Mater di Bologna, dove la donna stessa ha affermato di sentirsi a casa. Concluse gli studi brillantemente il 31 ottobre del 1936 e già nel gennaio del 1937 era la più giovane fra le donne a professare la medicina in Italia.
Dopo la laurea, furono tante le città italiane, tra cui Fiume, Taranto, Napoli, Pisa, dove soggiornò per seguire l’uomo di cui si era innamorata e da cui aveva anche avuto una figlia. Ma nel frattempo le leggi razziali incalzavano e la paura di essere arrestata cresceva; così, una volta arrivata a Borgotaro, dove capì di essere vicina al suo triste destino, decise di mandare la figlia a Udine, dalla famiglia del padre della bambina.
Dopodiché, il 30 novembre 1943, iniziò l’incubo: venne prima detenuta in un albergo, poi trasportata nel campo di Fossoli, per raggiungere poi, nell’aprile del 1944, il campo di concentramento di Auschwitz, dove poté rendersi conto della tragicità della situazione. Le donne con figli, ad esempio, “imboccavano subito la scorciatoia verso la morte”.
Ma Dora aveva una “arma segreta”, un foglio di carta che poteva garantirle la sopravvivenza in quei luoghi dove era più semplice morire che rimanere in vita. Quando le venne chiesto di confermare la propria qualifica professionale lei, senza esitare, prese dal vestito, dove lo custodiva gelosamente, il suo certificato di laurea che recitava in tono solenne “Laureata in medicina e chirurgia all’Università di Bologna”. Nel suo libro “Vivere e sopravvivere – Diario 1936-1945″, la donna stessa racconta: “fui subito gratificata con il titolo di Ärtzin (dottoressa) che mi lasciò allibita dalla sorpresa”.
Dopo l’agghiacciante esperienza di Auschwitz, in cui la donna ha potuto assistere anche a file di uomini marciare verso le camere a gas inconsapevoli del loro imminente destino, fu trasferita a Budy, un campo di concentramento di sole donne, che versava in condizioni sanitarie veramente pessime. Le detenute, infatti, erano affette da malaria, tifo petecchiale, TBC, e Dora, vista la sua qualifica, cercava di tenere nascoste le reali condizioni delle donne, per evitare che fossero trasferite ad Auschwitz e quindi per salvarle da morte certa.
Dopo un anno, fu trasferita a Belsen in Sassonia, dove al posto dei forni crematori, trovò “montagne di cadaveri e moribondi che piangevano e gemevano”. Qui Dora si ammalò di tifo e quando il campo venne liberato due mesi dopo dai reparti britannici, è avvenuta in lei una sorta di resurrezione. È uscita da quella condizione di “trance” che l’ha mantenuta viva durante gli anni trascorsi nei campi e ha potuto riprendere in mano la sua vita.
In un giorno di commemorazione tanto importante come il “Giorno della memoria”, non può passare inosservata la storia di questa donna che non solo, grazie alla sua qualifica e al suo coraggio, è riuscita a salvare se stessa e altre donne, ma ha anche portato a termine una missione, cioè raccontare gli orrori a cui ha assistito e testimoniare eventi che devono necessariamente rimanere impressi nella nostra memoria.