L'alto tasso di disoccupazione giovanile in Italia è spesso accompagnato anche da pessime condizioni lavorative e paghe misere imposte ai giovani. Tre ex studentesse raccontano a LiveUnict la difficoltà di trovare lavoro dopo l'università.
“Disoccupazione giovanile”. È un titolo ridondante che, purtroppo, si legge quasi quotidianamente sulle maggiori testate italiane. Spesso viene accompagnato da frasi altrettanto allarmanti come “In Italia la disoccupazione giovanile è il doppio della media europea” oppure “Disoccupazione giovanile ancora in rialzo”. E nonostante tutte le manovre politiche, sembra non esserci ancora una soluzione per questo fardello che affligge il Bel Paese.
I dati più allarmanti si constatano nel Sud Italia dove il lavoro giovanile è sempre più precario. Alcuni hanno la presunzione di affermare che la disoccupazione giovanile sia dovuta dalla negligenza dei giovani di oggi che, abituati ai comfort di casa, non sono disposti a rimboccarsi le maniche. Ovviamente non si tratta di una verità assoluta in quanto per ogni giovane – dai 20 ai 30 – che preferisce stare comodamente seduto sul divano ce ne sono altri venti in cerca disperata di un lavoro e dell’indipendenza economica. Oltre ai limitati posti di lavoro, ad accrescere il tasso di disoccupazione e di precariato sono anche le condizioni lavorative imposte dai datori: troppe ore, paga misera.
“Alcuni datori di lavoro non possono lamentarsi del fatto che non trovano personale se le loro condizioni lavorative toccano l’estremo. Non siamo schiavi, ma ragazzi in cerca di un’occupazione“ dice con un tono di sofferenza Alice (nome di fantasia per mantenere l’anonimato dell’intervistata), 24 anni, a LiveUnict. La sua è purtroppo una storia come tante altre, fatta di sconforto e delusione per un sistema che non garantisce prospettive future.
“Ho frequentato la facoltà di Beni Culturali a Catania per circa tre anni – racconta la ragazza – ma ho mollato prima di riuscire a laurearmi. A farmi prendere questa decisione hanno contribuito sia un esame non andato a buon fine e sia la voglia di costruire un futuro insieme al mio compagno. A quel punto ho messo le due cose su due piatti della bilancia: studiare e pesare ancora sulle spalle dei miei genitori oppure andare a lavorare e diventare indipendente economicamente? Alla fine ho scelto la seconda”.
Lasciata definitivamente l’università, Alice – come molti suoi coetanei – è andata alla ricerca di un impiego. “Sono entrata in un panificio del mio paese e ho letto il bigliettino con su scritto cercasi commessa; la mia esperienza in quel panificio è stata breve. Ben presto ho capito che il mio tempo passato lì dentro e la mia fatica non valevano lo stipendio che ricevevo. Lavoravo tutti i pomeriggi dalle 16 alle 21:30. Avevo a disposizione un giorno libero a settimana che dovevo recuperare facendo una giornata intera, dalle 7 alle 14:30 e poi dalle 16 fino a chiusura, il tutto per 400 euro al mese in nero“.
“Queste condizioni mi sono state fatte presenti il giorno del colloquio – rivela la giovane – ed ho accettato consapevole della paga e delle ore lavorative. Credevo che ne valesse la pena, ma è subentrata la stanchezza e l’amarezza di un lavoro sottopagato. Le mie mansioni comprendevano: servire i clienti al bancone, stare alla cassa, pulire il locale, preparare granite e caffè e, alle volte, aiutare in cucina. Le mie colleghe non lamentavano apertamente le condizioni lavorative. Molti si accontentano perché fa sempre comodo ritrovarsi 100 euro in tasca a fine settimana”. Ed è forse proprio a causa di questo senso di rassegnazione che alcuni datori di lavoro si approfittano dei loro collaboratori pagandoli miseramente.
“Prima di questa esperienza – aggiunge – ho lavorato per una stagione estiva in un chiosco. Prendevo 30 euro per otto ore lavorative ed avevo anche un giorno libero a settimana che, al contrario del panificio, non andava recuperato”. Provo rabbia, perché so che quella che ho vissuto in prima persona è una situazione abituale nei panifici e non solo. Ho 24 anni, voglio costruire un futuro con il mio compagno e non dover più dipendere dai miei genitori, ma con 400 euro al mese come dovrei fare?”.
La situazione non migliora neanche per chi una laurea l’ha conseguita e per di più con il massimo dei voti. “Ho studiato lingue e culture europee presso l’Università di Catania e mi sono laureata con 110 e lode” ha dichiarato Clara, 25 anni, un’ex studentessa del Disum. “Al posto della specialistica ho preferito proseguire i miei studi al nord Italia con un master di primo livello nell’ambito dell’internazionalizzazione delle imprese, per acquistare conoscenze non soltanto linguistiche ma anche economiche in correlazione all’area geografica di mio interesse: la Russia. Ho finito il master da un paio di mesi e sono in cerca di un’occupazione, ma sto trovando le famigerate difficoltà di cui tanto ho sentito parlare. La principale difficoltà è la mancata esperienza lavorativa: come si può pretendere di assumere giovani neolaureati con almeno uno o due anni di esperienza pregressa? Utopia. La cosa che mi demoralizza più di tutte è la mancanza di formazione, ma soprattutto la poca volontà di formare giovani neolaureati che si affacciano per la prima volta al mondo del lavoro. Presa dalla disperazione ho provato anche ad inviare il mio CV per la posizione di sale assistant in un noto negozio danese, che altro non è che il ruolo da commessa. Il risultato? Il mio CV non è idoneo. Mi viene da ridere” ha concluso Clara.
Anche il mondo universitario ha delle responsabilità da prendersi: basti considerare che molte volte vengono proposti stage full time con un rimborso spese di 300 euro lordi, che è il minimo garantito secondo la regolamentazione della Regione Sicilia.
“A due mesi dal conseguimento della mia seconda laurea ho iniziato uno stage post-laurea convenzionato con l’università di Catania”, ha raccontato Antonietta, laureata in Lingue e letterature comparate. “Immettersi nel mondo del lavoro è sempre, a suo modo, traumatico – ha continuato l’ex studentessa – sei sempre stato abituato a vivere in un contesto protetto (scuola, università) e dopo ti ritrovi catapultato in un mondo in cui devi cavartela da solo e non è semplice. La società, oggi, soprattutto non aiuta: quando ho iniziato a inviare curriculum, sono stata ricontattata da aziende che offrivano contratti di lavoro improponibili, soprattutto stage. Il più clamoroso è stato uno stage full time (40 ore a settimana) per 300 euro al mese. Per una persona che ha una laurea magistrale è un’offerta di lavoro ridicola e irrispettosa. Poi ho avuto la fortuna di trovare lo stage attuale tutto sommato è discreto, uno dei migliori che ho trovato in giro”. Alla domanda “Che futuro vedi per i giovani neolaureati in cerca di lavoro in Italia?” Antonietta sembra avere le idee abbastanza chiare: “Il futuro per i giovani in Italia non esiste, punto. Viviamo in un sistema malato purtroppo, e chiuso, e le alternative sono due: uscirne o starci dentro a condizioni indecenti. Non è facile nessuna delle due. Finché l’Italia non capisce – come hanno già fatto gli altri Paesi – che i giovani sono una risorsa preziosa, non andremo da nessuna parte”.
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