I dati del 2017 avrebbero fatto registrare una nota positiva sul numero di lavoratori in nero sul suolo italiano: rispetto al 2015 sarebbero 200mila unità in meno. Tuttavia, sono ancora in troppi i cittadini che non vengono riconosciuti a livello previdenziale e fiscale, come rivelato dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro, per un ammanco nelle casse dello stato che si aggira attorno ai 20 miliardi e 60 milioni di euro.
In troppe anche le aziende che risultano irregolari dopo i controlli dell’Ispettorato: solo nell’anno scorso sono state verificate nel 64,54% dei casi delle irregolarità che riguardano il mancato pagamento dei contributi Inps, Inail e Irpef, rapporti part-time gestiti come full-time e lavoro in nero. Nel 2017 sono state 94 le persone indagate e 31 gli arrestati, mentre i lavoratori vittime di sfruttamento hanno raggiunto la soglia dei 387.
Nel settore agricolo le sanzioni sono diventate più pesanti. Come prevede la Legge Martina, per caporali e imprenditori che ricorrono alla loro intermediazione vengono messe in atto misure penali drastiche, come la confisca dei beni (già usata per le organizzazioni mafiose) e l’arresto in flagranza. Il caporalato, comunque, figura tra i reati perseguibili nel codice penale già dal 2011. Consiste nello sfruttamento di persone in gravi difficoltà economiche e migranti, per trasformarli conto terzi in lavoratori sottopagati e sottoposti a turni lunghissimi e faticosi. Sarebbe sbagliato pensare che il caporalato sia un problema unicamente nel settore agricolo. Senza interventi decisi contro il lavoro in nero sono sempre più settori a essere coinvolti.