Essere fuori corso non è sempre qualcosa di negativo, come l'attuale sistema vuole farci credere. Il professore Antonio Di Grado ha affidato ai social una sua riflessione sull'università.
Essere fuori corso all’università spesso viene visto come sinonimo di mancanza di impegno o pigrizia. Ci si aspetta che gli studenti si laureino nei tempi previsti dal corso di laurea, chi non lo fa non sembra meritare sempre lo stesso rispetto. Una logica spietata che spinge gli studenti ad essere sempre precisi, puntuali e consenzienti, finendo forse alle volte per allontanarli dalle loro inclinazioni e dalle esperienze migliori di questi anni.
Il professore Di Grado, ordinario di Letteratura italiana al Disum, ha affidato a Facebook una sua riflessione sul tema:
“Sono stato un fuori-corso: mi sono laureato con un anno di ritardo. Perché? Perché facevo politica, Sessantotto e occupazioni compresi, perché condividevo le attività di una comunità di studenti dalla vita molto intensa, perché dirigevo un giornalino, perché approfondivo le materie più amate più del dovuto, e infine (e perché no?) perché tenevo al mio tempo libero, agli svaghi, agli amori, alle amicizie, e a quelle letture eccentriche e disparate, estranee ai programmi universitari, alle quali devo la mia più autentica formazione.
Sono stato un fuori-corso e continuo a ritenermi tale a vita, perché pretendo di gestire il mio tempo, i miei interessi, le mie occupazioni senza subire imposizioni e perentorie scadenze, senza prestare ascolto alle malefiche sirene della ‘produttività’.
Ma a quelle sirene l’università italiana ha ceduto, a costo di inabissarsi come sarebbe accaduto agli incauti marinai di Ulisse. E in nome di una produttività grettamente aziendale, ha deciso di dar battaglia ai fuori-corso, di sbarazzarsene in qualunque maniera. Già, perché per ricevere adeguati finanziamenti gli atenei devono dimostrarsi privi di quella ingombrante zavorra, devono promuovere a più non posso per laureare tutti nei tempi previsti, devono coltivare studenti-ingranaggio puntuali e consenzienti, privi d’altri interessi, docili e sbrigativi clienti, accorti collezionisti di crediti.
E infatti ora mi si chiede di approntare ‘programmi minimi’ per i fuori-corso, da liquidare con voti anch’essi minimi, da 18 a 20. Minimi? Dante sì e Petrarca no? La rivoluzione francese sì e il risorgimento no? O, per altre facoltà: il cuore sì e i polmoni no? Metà del codice penale sì e l’altra no? E oltre a sfornare asini, che diremo a chi ha studiato e studia, invece, su programmi corposi ed esaustivi?
Io li conosco, i miei studenti fuori-corso. Sono impegnati nell’associazionismo, hanno preso sul serio la vita e la vivono come un impegno esigente, laborioso, altruista, oppure prendono fin troppo sul serio gli studi, si dedicano a un esame o alla tesi come fosse (ed è bene che lo sia) un decisivo rito di iniziazione e l’agognato accesso al tempio del sapere; non, come per altri, una pratica burocratica da sbrigare al più presto. Oppure… oppure avranno altri motivi, i più tristi o i più gioiosi, sui quali non tocca a me, né all’università, sindacare”.
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