Il diploma, la laurea, la specialistica e poi il master, stage sottopagati e certificazioni su certificazioni. È questa la prassi che la maggior parte dei giovani di oggi segue per assicurarsi maggiori possibilità lavorative. Tuttavia, nonostante gli sforzi e l’impegno, e nonostante i numerosi anni di studio, tutto questo non basta.
La disoccupazione giovanile in Italia ha raggiunto livelli elevatissimi e la laurea – quel pezzo di carta che fino a dieci anni fa riusciva a fare la differenza garantendo prestigiose posizioni lavorative – oggi ha (quasi) perso il suo valore. I laureati aumentano, ma non i posti di lavoro. F., un’ex studentessa di 26 anni, in una lettera anonima alla redazione di Repubblica, ha riportato nero su bianco tutto il suo sconforto per una situazione sempre più difficile che sembra non voler cambiare.
“Mi sono laureata nel 2015 e, ad oggi, dopo vari tentativi falliti e occasioni mancate, ho l’impressione di non aver costruito niente, di non avere niente: nessun lavoro, nessun contratto stabile, nessuna tutela o prospettiva di crescita, nemmeno una vita degna di essere chiamata tale, niente di niente. Prima che qualcuno possa saltare a conclusioni affrettate volevo dire che no, non è la disoccupazione a farmi pensare al suicidio, ma è il senso di inutilità, il peso del fallimento, la vigliaccheria che mi assale tutte le volte che, di proposito, evito tutti quei posti dove so di incontrare gente che conosco, perché non mi va di spiegare loro come stanno le cose (che cosa faccio, che cosa ho intenzione di fare, perché non vado via, perché vivo ancora nella stessa strada dove sono nata, perché dopo l’Università non ce l’ho fatta)”.
Con queste parole, F. è diventata la voce di tutti quei giovani che oggi, dopo un lungo percorso accademico, si trovano in una situazione di stallo, senza certezze, senza prospettive per il futuro, ma soprattutto con il peso di vivere ancora sulle spalle dei genitori. Non sorprende dunque l’aumento del cosiddetto fenomeno della “fuga dei cervelli”, ovvero i laureati che hanno abbandonato la terra natale per emigrare all’estero alla ricerca di posizioni lavorative più facoltose e consone ai propri studi.
“Il problema è che quando ti propongono uno stage a 300 euro al mese con quelli non ci paghi nemmeno l’abbonamento ai mezzi pubblici. Conosco persone con lauree di tutto rispetto obbligate a scannarsi con altri per ottenere un posto come cassiera al supermercato, professionisti precari costretti a vivere ancora con i genitori, gente pentita di aver accettato – al fine di fare esperienza – rimborsi spese ridicoli per tirocini che autorizzano lo sfruttamento, e gente invece pentita di non averlo fatto (perché se non accetti tu tanto lo farà qualcun’altro). Le risorse umane non possono assicurarci niente, la direzione non ha i fondi necessari, ma comunque ci danno l’opportunità di ‘formarci sul campo’, ‘arricchire il curriculum’ e ‘passare finalmente dalla teoria alla pratica’, poco importa se questo è il primo, il terzo o il quinto stage sottopagato che ti propongono nel giro di un anno”.
“Allora succede così che, senza nemmeno accorgertene, inizi a svalutare il tuo lavoro, a sottovalutare te stesso, a credere sempre meno in te e alle tue potenzialità, fino poi ad accettare lavori che mai avresti pensato di fare, lavori che odi, ma che (se sei fortunato) riusciranno forse a farti arrivare a fine mese da solo, senza l’aiuto di nessuno. A me è successo questo: ho perso la via, ho dimenticato chi sono e cosa voglio fare e come sono arrivata fino a questo punto. Faccio parte di una generazione di sognatori che si è svegliata quando ormai era troppo tardi. Insoddisfatti o disoccupati, sembrano queste le uniche alternative possibili rimaste. Se sei infelice e frustrato ma riesci a pagare le bollette ringrazia il cielo o chiunque credi ci sia lassù perché poteva andarti peggio, potevi essere infelice, frustrato e pure disoccupato”.
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