L’ultimo articolo di Giulio Regeni: “In Egitto regime autoritario e repressivo”

È stato il suo ultimo reportage. Sono queste le parole che il giovane Giulio Regeni, ucciso barbaramente nei giorni scorsi in Egitto, aveva scritto per “Il Manifesto”. L’articolo, riportato anche su Zammù Multimedia, era stato pubblicato con uno pseudonimo. 

“Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa. Eppure i sindacati indipendenti non demordono. Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.

Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro non riusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto per un’assemblea che ha dello straordinario nel contesto attuale del paese. L’occasione è una circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale Etuf (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.

Sebbene oggi Ctuws non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto significativo di sindacati.

Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura, rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta, Alessandria e il Cairo.

La circolare del governo rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013, e ha così fatto da catalizzatore di un malcontento molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi a prendere forma in iniziative concrete.

Movimento in crisi

Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di libertà politiche. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di cui il Ctuws è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di supporto e formazione.

Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la Edlc ed Efitu) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013.

Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza.

Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso appassionati, e con un taglio molto operativo: si trattava di proporre e decidere insieme il «cosa fare da domani mattina», un appello ripetuto come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la necessità di delineare un piano d’azione a breve e medio termine.

Da notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi sono stati in alcuni casi tra i più apprezzati e applauditi dalla platea a maggioranza maschile. La grande assemblea si è poi conclusa con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo, che si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali.

Conferenze regionali

L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta («a Tahrir!» diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta).

L’agenda sembra decisamente ampia, e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati.

Nel frattempo, proprio in questi giorni, in diverse regioni del paese, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: per lo più le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche.

Nuova ondata di scioperi

Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak.

Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.

Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro, e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito al Cairo.

Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan «Pane, Libertà, Giustizia Sociale» non sono riuscite sostanzialmente a intaccare.

L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento.

Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla «guerra al terrorismo», significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile”.

Leggi anche UNICT – Giornata di lutto negli Atenei per il caso Regeni: la petizione degli accademici

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