Fare un’esperienza di studio all’estero significa entrare a contatto con una cultura, che nonostante i punti in comune con la nostra, ha delle differenze. E se da una parte la frase “tutto il mondo è paese” riecheggia per disparati motivi, dall’altra ci si rende conto che le differenze sono notevoli all’interno del mondo accademico e lavorativo.
In Francia una grande percentuale di ragazzi trova impiego in vari uffici e la loro presenza aumenta quando si entra nelle segreterie universitarie. La grande differenza, però, risiede le metodo didattico che le università estera hanno adottato.
Per prima cosa quasi tutti i Corsi di Laurea hanno materie con un numero di crediti notevolmente inferiore rispetto a quello italiano. Nessuna corrispondenza, dunque, tra una materia di 9 CFU e le sue 900 pagine obbligatorie. In Francia i corsi da seguire variano a partire da 1.5 ETC e così, per chi si trova in Erasmus, spesso per convalidare una sola materia del corso di studio italiano si devono seguire all’incirca tre corsi nella facoltà estera.
Il metodo di insegnamento, di approccio allo studio e l’interazione tra docenti e professori sono molto diversi, e in un certo senso distanti, da quelli italiani.
Sono sempre meno le cattedre che fanno da barriera tra chi appartiene ai piani alti del mondo accademico e gli studenti. Esistono, infatti, due tipi di corsi differenti: corsi istituzionali ed esercitazioni. I primi, noti come “cours magistraux” (CM), si svolgono in grandi aule e con un alto numero di alunni. L’unico caso in cui l’interazione tra insegnante e studenti diminuisce. Basta seguire un “travaux dirigés” (TD) per rendersi conto di quella che potremmo definire “didattica progressiva”. La grande attività di partecipazione degli studenti, infatti, fa di questi i protagonisti delle lezioni. Numerose esercitazioni quotidiane e con una cadenza regolare “costringono” gli studenti a prendere parte attivamente e a seguire la materia con maggiore attenzione e consapevolezza. Le esercitazioni sono disparate, si svolgono esercizi scritti, exposés (presentazioni orali) e prove nei laboratori. Si tratta di lavori, simili in parte alle nostre prove in itinere, seguiti da un esame finale (quasi sempre scritto).
Un metodo che sembra rievocare gli anni trascorsi nei nostri licei, ma che risulta molto utile per l’apprendimento. Dover studiare giorno dopo giorno una materia, sicuramente, facilita l’acquisizione delle nozioni ed evita i lunghi mesi di studio, che gli universitari italiani si trovano a vivere costantemente.
Le valutazioni sono il frutto di un esame globale di fine anno o semestre (contrôle final) oppure di una media tra le verifiche parziali svolte durante il semestre (contrôle continu). Inoltre le date degli esami sono inderogabili. Nessun prolungamento e nessuna lista di studenti “urgenti”, solo dei giorni stabiliti dal Service de scolarité nei mesi di gennaio-febbraio e maggio.
Non solo, quindi, una valutazione in ventesimi, dove un 15/20 in Italia potrebbe essere convertito in un 30/30, ma soprattutto una grande attività di partecipazione di gruppo in cui le differenze tra il “monsieur” e gli allievi sembra quasi sparire, al punto tale da non temere di alzare la mano per chiedere qualcosa.
È vero le bibliografie che i docenti distribuiscono a lezione cadono, il più delle volte, nel dimenticatoio e si studia solo dagli appunti, ma sorge spontanea la domanda: la cultura e la preparazione di uno studente possono essere valutate basandosi solo sul numero di crediti e di pagine studiate?
In Italian dovremmo riflettere un po’ e iniziare a guardare i vari modelli di didattica europea. Quello francese è un esempio, ma le testimonianze degli studenti italiani che si sono trovati a vivere un semestre o un intero anno accademico all’estero danno prova della necessità di riformare i nostri metodi e di lasciare spazio ai professori italiani che tentano di rendere le loro lezioni “diverse” dalle solite spiegazioni aride, nozionistiche e prive di interazione.
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