Salto alla vita dopo il cancro, la storia di Antonio Giulio Zambito

Di cancro si parla poco e se lo si fa anche con un certo imbarazzo: non si sa mai cosa dire, come comportarsi, è un po’ come muoversi in un territorio sconosciuto con il rischio di beccare qualche brutta sorpresa. Di sicuro, il grande scalpore suscitato dal libro di Albert Espinoza, Braccialetti Rossi e la successiva fiction andata in onda l’anno scorso, ha permesso di sdoganare un argomento impensabile, di risvegliare l’attenzione su un problema reale, una piaga sociale presente in tutto il mondo. Per chi lo subisce ma lo vince, il cancro è sicuramente un problema che trasforma e fortifica, una patologia che ti obbliga a bruciare le tappe, a crescere improvvisamente, a diventare subito grande e a dover fare i conti con una realtà, quella del dolore, della sofferenza, della malattia inevitabile.

Ricordo ancora quella mattina, a pranzo, quando il mio collega e caro amico Antonio Giulio Zambito, mi disse che circa due anni fa aveva avuto un cancro. Rimasi in silenzio, imbarazzata e allo stesso tempo stordita, stupita. Era impensabile per me immaginare che il ragazzo alto, forte, imponente, sicuro di sé che avevo davanti avesse fatto i conti con una problema così attuale, vivo e forte quale il tumore. Mi sorprese il modo disinvolto con cui me ne parlò, raccontandomi il tortuoso calvario a cui era andato incontro: “la malattia ti insegna a credere alla vita”. In questo senso, vogliamo parlare di cancro come lezione di vita e lo facciamo proprio con lui. Antonio, infatti, sente il coraggio (perché ci vuole coraggio per svelare qualcosa di intimo come questo) di parlare, di raccontare e di non nascondersi.

«Sono un ragazzo di 20 anni, nato a Palermo, attualmente residente ad Agrigento. E’ qui che frequento il primo anno presso il Polo didattico (sede distaccata di PA) del Dipartimento di architettura. La mia vita ruota intorno al basket, allo studio e al pianoforte. Gioco infatti a Licata in una società di serie C2, sogno di diventare architetto e studio il pianoforte privatamente da ormai diverso tempo».

Dopo questa breve presentazione, gli domando:

Quando hai scoperto e come di soffrire di questa patologia?

«A 18 anni, circa 2 anni fa, tramite autopalpazione, trattandosi di zona inguinale, mi accadde fortuitamente di notare una massa escrescente. Ho fatto subito degli accertamenti:  inizialmente mi ha visitato un andrologo. Mi tranquillizzò dicendomi che si trattava di una semplice ciste. Rimasi perplesso: era strana e sottocutanea. Ovviamente non potevo immaginare si trattasse di un tumore. Anche l’ecografia successiva non mi consentì di avere ulteriori chiarimenti. Ero in una situazione di stallo, di piena incertezza: dentro di me sentivo che c’era ben altro. Mi operarono per rimuovere questa ciste, ma durante l’operazione il primario, uno specialistica milanese, venuto ad Agrigento, comprese lungimirante che si trattava di qualcosa di più grave e complesso di una semplice ciste. Operò così con maggiore accuratezza e, terminato l’intervento, ci consigliò di andare a Milano in un centro più specializzato , l’Istituto Tumori».

Prima il sospetto, infine la certezza che qualcosa di nuovo, più grande di te si è intromesso nella tua vita. Cosa hai provato quando hai scoperto tutto questo?

«All’inizio non ne ero pienamente consapevole. Già dall’ecografia, però, mi convinsi che c’era qualcosa che non andava anche se non sapevo di cosa si trattasse. I miei genitori all’inizio non volevano dirmi nulla a riguardo: mi tenevano segreta la cosa fin quando, casualmente, un giorno trovai una ricerca su masse tumorali. Chiesi ovviamente spiegazioni a mio padre, il quale provò a tranquillizzarmi. Ma io non mi convinsi. Infatti, prima di prendere il volo per Milano misi i miei genitori con le spalle al muro. Mi arrabbiai dicendoli “è inutile che ci prendiamo in giro, ditemi come stanno realmente le cose”.  Mi infastidì infatti il fatto che fino ad allora mi avevano tenuto nascosto il cancro: credo che a 18 anni ci sia una maturità tale per comprendere certe cose ed essere messo ufficialmente al corrente della mia malattia fu per me un primo passo verso la guarigione».

Quanto è durata la terapia e quanto ti è costato tutto questo non tanto in termini di dispendio economico quanto dal punto di vista fisico, psicologico … ?

«Andando lì, i medici mi hanno subito tranquillizzato dicendomi che con una buona percentuale di probabilità ne sarei uscito sano e salvo. Mi fidavo di loro, della loro esperienza, della loro competenza e ciò è fondamentale. Non puoi fare altro in casi del genere che riporre te stesso, la tua vita nelle mani di altri, di persone che sanno quello che fanno. E’ come ritrovarsi inaspettatamente dentro una scatola chiusa: tu dall’interno non puoi fare niente, devi solo aspettare. Aspettare che gli altri ti aprano in qualche modo, trovino uno spiraglio, un’apertura per farti uscire. Anzi, non è vero che non puoi fare niente: quello che puoi fare a parte trovare la pazienza per sopportare tutto questo, è non arrenderti, non leccarti le ferite, non piangerti addosso per ciò che ti sta capitando. Devi essere tenace, devi tirare il meglio di te: è proprio in situazioni del genere che improvvisamente ti scopri più forte di quanto ti credessi prima. Penso che la forza sia una conseguenza: devi trovarla dentro di te e aggrapparti con speranza. Il resto va da sé. Inoltre, prendere atto di cosa andrai incontro credo sia un bell’aiuto. Tutti dinanzi all’ignoto avvertiamo paura, diffidenza: ma quando i medici mi dissero cosa mi avrebbero fatto, mi illustrarono la terapia, una chemio relativamente leggera, se confrontata alle altre, ma (ovviamente!) sempre devastante dal punto di vista fisico e psicologico. E’ durata nove mesi, andavo a Milano ogni 23 e per 5 giorni ininterrotti mi sottoponevo puntualmente alla cura con farmaci davvero pesanti. Di conseguenza, i sintomi che avvertivo erano nausea, vomito, stanchezza, spossatezza: più andava avanti e più mi rendevo conto che perdevo lentamente le forze e non ero più quello di prima. Avvertivo poi un senso di vuoto, difficile da descrivere, certe emozioni se non si vivono non si possono comprendere,  e poi, una delle conseguenze più brutte derivanti dalla chemio è l’incredibile cambiamento gustativo che avverti quando mangi: il sapore dei cibi è metallico. Tutto, anche l’acqua che è insapore,diventa orribile. A differenza di chi non mangiava del tutto, infatti ci sono molti casi di anoressia conseguenti proprio alla chemio, io sentivo il bisogno di mangiare, nonostante il gusto agonizzante, preferivo pietanze dal sapore piuttosto forte per attutire quel metallico che masticavo tra i denti. Ovviamente era un tentativo inutile: la sensazione di masticare metallo l’ho avvertita per tutto il tempo della chemio. Complessivamente, la cura mi ha debilitato parecchio perché giocando a basket in modo agonistico, non ricreativo, ho risentito fisicamente sia fiato che in tono muscolare. Non pensavo, inizialmente, che fosse così debilitante: il colmo arrivò quando mi accorsi di non riuscire più a suonare il pianoforte, i nervi erano come atrofizzati, fisicamente non c’ero più. Cosa fare in questi casi? Accettare. Accettare e accogliere un corpo “malato”  e l’immagine ignota e minacciosa che rimanda, cosa non sempre  immediata. Non mi sarei mai immaginato di dover metabolizzare i cambiamenti lenti e progressivi che avvenivano dentro di me, né le sofferenze legate alle cure chemioterapiche, o la fatica e la routine degli accertamenti periodici inclusi nel “pacchetto” di riabilitazione».

Chi hai avuto accanto in tutta questa esperienza ?

«I miei genitori ovviamente, sono stati coloro che non mi hanno lasciato un attimo, mi hanno supportato e tranquillizzato in ogni circostanza. Particolarmente forte e vicina è stata anche la mia fidanzata. All’epoca, non stavamo da molto tempo insieme, inoltre, assicuro che per una ragazza di 17 anni avere un fidanzato malato di cancro non deve essere una bella esperienza. Lei però ha retto molto bene l’urto e mi ha aiutato molto soprattutto psicologicamente. I miei amici sono venuti al corrente del cancro dopo la prima chemio a Milano. Quando sono tornato ad Agrigento, sono venuti a trovarmi ma ovviamente per loro ciò che mi stava succedendo era una cosa assolutamente inaspettata».

E la paura in tutto questo?

 «Come dice Giovanni Falcone, l’importante non è non avere paura, quanto saperla gestire, imparare a conviverci. All’inizio,non sapendo a cosa andassi incontro, non provavo nulla. Prendendo poi consapevolezza di ciò che mi aspettasse, è normale subentri la paura. Alla fine, però, impari a farci i conti: è un po’ come una partita a poker. Non saprai mai in anticipo se vinci o se perdi. La paura nel mio caso si è trasformata in una sensazione nuova, interna e profonda che mi ha consentito di affrontare le cose con una logica diversa, con una forza, una determinazione tale da non avere più timore di nulla. E poi, appena sono arrivato a Milano, in quel centro specializzato, mi sentii tranquillizzato dai medici e ciò mi fu di conforto. Credo sia fondamentale imparare a gestire emozioni forti quali la paura, il dolore, la disperazione che puoi avvertire personalmente o passivamente venendo a contatto con una realtà, quella del reparto di oncologia pediatrica, non molto piacevole. “Lo sconforto deve mutarsi in gratitudine, l’ansia in consapevolezza, il dolore nella speranza di concludere questo percorso».

Il ritorno alla vita di tutti i giorni

«Non è cosa facile, bisogna avere tanta forza di volontà. Io giocando a basket ho cercato subito di rimettermi in sesto e non è stato semplice. Mi confrontavo con i miei compagni di squadra costantemente in allenamento mentre io avevo il fiatone salendo le scale, a momenti non riuscivo neanche a camminare, figuriamoci a correre e saltare. Specialmente all’inizio non potevo pretendere il massimo da me stesso. Non è facile imparare a riconoscersi e ad amarsi nonostante la malattia e superata la malattia, soprattutto vedendo i trascini  che essa comporta. Perché il cancro è una zona buia che resta incavata nel tuo corpo, nella mente e nella tua anima per sempre, anche quando hai finito tutto, anche quando ti dicono che sei guarito definitivamente. Dopo un anno, ho avuto i miei primi risultati e infine, trascorsi due anni, sono riuscito a tornare al 100% delle mie precedenti prestazione».

Chi era Antonio ieri e chi è oggi Antonio dopo il cancro?

«Il cancro mi ha lasciato un segno interiormente molto profondo, più evidente di qualsiasi cicatrice superficiale. Come dicono in molti, uno dei “premi” più belli che vinci dopo il cancro è il non avere più paura di morire. Nel mio caso non mi sono trovato del tutto faccia a faccia con questo timore: fin dall’inizio sapevo che c’erano buone probabilità di riuscita, ma in ogni caso è una paura che subentra perché non puoi mai sapere cosa ti succederà domani.  Il tumore mi ha permesso di acquisire una maggiore maturità che mi consente di essere più empatico con me stesso e con gli altri. E’ una di quelle esperienza forti che non tutti riescono a reggere, una delle prove veramente difficili che la vita ti dà. In quel reparto, i miei occhi hanno visto tante situazioni brutte, immagini toccati che resteranno per sempre impresse. Vivi personalmente ciò che la gente “normale” vede solo nei film o immagina leggendo un libro: respiri quegli odori, impari a sopportare le luci al neon, incontri tante persone, ciascuna con la propria storia, ciascuno di loro con un carico pesante da portare. Ho visto bambini appena nati già con malformazioni tumorali ma anche trentenni che improvvisamente si ritrovano a dover fare i conti con un mostro ignoto, sconosciuto. Tutto questo è spaventoso: un attimo prima sei a casa, vivi la tua vita tranquillamente, lavori, studi, magari anche ti lamenti perché ciò che hai e fai non ti piace, non ti soddisfa e poi, improvvisamente, senza preavviso, ti ritrovi a fronteggiare questo ostacolo più grande di te. Non sai come ma ti ritrovi in sala d’attesa in ospedale ad aspettare il tuo turno, ti guardi allo specchio e ti scopri senza capelli perché fai la chemio e oltre a perdere i capelli perdi pure parte di te stesso. Per ritrovarne un’altra, forse migliore… Da momenti come questo  comprendi che la vita è un’esperienza meravigliosa, un viaggio in salita in cui gli incidenti di percorso diventano lezioni brutali, forzate ma utili. Ti scuotono, si schiaffeggiano per farti cambiar rotta, per ricordarti chi sei, cosa stai facendo. Il cancro è come un giro in giostra: vince chi si aggrappa alla cintura di sicurezza, chi si stringe con affetto e fiducia a chi ha accanto e chi, di fronte alla paura del salto nel vuoto, della caduta improvvisa ci ride sopra e continua a sperare di scendere sano e salvo. Il tumore ti insegna a  vivere e non lasciarti vivere, ad assaporare ogni singolo attimo con autenticità e non con superficialità, a confrontarti con i tuoi limiti e a partire proprio da questi per migliorarti e per crescere, diventando quella persona che hai sempre sognato di essere».

 

Maria Eleonora Palma

Autore - Sono nata il lontano 24 Novembre del 1993 a Vittoria, una piccola città in provincia di Ragusa. Mi divido tra Catania, dove frequento il primo anno della facoltà di Scienze e Tecniche Psicologiche, e la mia città natale che amo tanto e a cui sono legati ricordi, amicizie e impegni vari. Sono una persona piuttosto socievole e accogliente, amo fare nuove esperienze (per questo piuttosto spesso mi ritrovo in situazioni buffe e stravaganti, comunque… sorvoliamo la faccenda!). Mi piace molto scrivere, leggere libri di tutti i generi e sono da ormai 4 anni educatrice in ACR (Azione Cattolica Ragazzi). I bambini sono il mio piccolo laboratorio: mi piacerebbe in futuro lavorare con loro, e grazie a questa opportunità ho scoperto pian piano che i bambini non sono dei piccoli “mostriciattoli capricciosi”, anzi un continente di emozioni, pensieri e comportamenti da scoprire. E’ molto bello e gratificante lavorare e avere a che fare con loro, spesso sono più sensibile e profondi degli adulti. Mi piacciono gli animali, anche se per ragioni di spazio, non ne tengo alcuno a casa. L’ultimo libro che ho letto è Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, uno dei miei libri preferiti, riletto più volte, questa è la terza, e credo uno dei testi meglio riusciti sull’autismo infantile. Non appena riuscirò a ritagliarmi un po’ di tempo, vorrei iniziare un corso di fotografia. Quello che mi manca è la Reflex, ma questo non è un problema.

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Maria Eleonora Palma

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