Per prepararci alla conferenza “La donna è vita. Perché l’uomo la uccide?” di questo pomeriggio, abbiamo pensato di intervistare il Dr. Michele Cannavò, psichiatra e psicoterapeuta della Gestalt, docente nell’istituto HCC di Siracusa, con la passione per la fotografia (non a caso è stato scelto come membro della giuria tecnica che ha valutato le tre foto vincitrici del concorso fotografico associato alla conferenza “Amori rubati, scatti ed emozioni”). Il dottor Cannavò ci ha fornito il suo punto di vista su quello che è il fenomeno del femminicidio, dell’abuso, della violenza contro le donne.
– Il XX secolo è stato un periodo di cambiamenti epocali e sconvolgenti che hanno rivoluzionato e cambiato molte prospettive, offrendo nuovi orizzonti di pensiero, abbattendo luoghi comuni antiquati e, per certi aspetti, un po’ bigotti. In questo senso, anche il ruolo della donna ha subìto un profondo mutamento: si è assistito a una sorta di “rivoluzione culturale”, una rivoluzione di pensiero che ha indotto a vedere la donna in una nuova luce: una figura alla pari dell’uomo, libera, autonoma, indipendente. Questa emancipazione è stata supportata e istituzionalizzata con importanti conquiste quali il diritto di voto, la legge sull’aborto, il divorzio, la nascita dei movimenti femministi … Come mai, a suo avviso, questa sorta di “riscatto culturale” non si traduce in un effettivo rispetto da parte dell’uomo nei confronti della donna, rispetto che quindi si concretizza in forme di non violenza?
– Analizzerei la cosa in una prospettiva più ampia: nel senso che ci troviamo in una società in cui l’aggressività ha raggiunto livelli molto elevati, aggressività che, spesso e volentieri, si traduce in forme di violenza specialmente nei confronti delle donne. Sicuramente la donna ha avuto nel corso dei secoli un ruolo più secondario, più nascosto, meno in evidenza e la possibilità che invece oggi abbia trovato delle nuove collocazioni dal punto di vista lavorativo, sociale, politico (abbiamo visto anche l’elezione del nuovo presidente della Camera, Laura Boldrini) fa scattare probabilmente nell’uomo forme di invidia, di difficoltà nell’accettare “qualcuno” che, a livello innato, era probabilmente visto come inferiore. Da un punto di vista culturale, mentre la realtà è che i ruoli si invertono , in fondo, si sono livellati, emerge una forte aggressività nei confronti delle donne, viste dall’uomo come delle “ladre”, come se li stessero togliendo qualcosa che per secoli è stato di loro esclusivo “dominio”. Per me non è differente la violenza contro la donna o la violenza contro gli extracomunitari o contro i bambini … In realtà, c’è qualcosa che non va all’interno della società: una mancanza di radici, di relazioni, di interconnessioni, di sostegno a tutti i livelli che trova spazio e sfogo nei luoghi dove c’è maggior contatto e dove storicamente c’è stato maggior contatto. Nel momento in cui la novità è che la donna non ha più il ruolo che aveva una volta, nel momento in cui si ha questa forma di competizione, la mancanza di sostegno, di fiducia anche nella possibilità che la donna possa portare delle novità, crea questa forma di aggressività, di rabbia, che spesso per una natura anche fisica, strutturale, diventa violenza, abuso, femminicidio. Penso che il fenomeno negli anni abbia avuto sempre un certo peso e una crescita anche se, oggi, tutto questo, viene messo maggiormente in evidenza. Non credo che rispetto a qualche anno fa il fenomeno sia esponenzialmente più alto, probabilmente viene maggiormente rimarcato.
– La figura della donna nella nostra società: che immagine diamo (noi donne) e che immagine danno di noi donne? Mi riferisco, in particolare, alla continua mercificazione del corpo femminile, quasi una violenza virtuale operata da tutto un pacchetto mediato (spot, pubblicità, televisioni, film, giornali, riviste …) che rimanda a un’idea di donna “da esposizione”. Trasgressione, erotismo, sessualità, propugnati indirettamente da queste campagne pubblicitarie, mediatiche quanto possono incidere sulla violenza nei confronti delle donne?
– In realtà non vi è un’effettiva linea comune. Sicuramente colpisce quanto il corpo della donna venga utilizzato come un oggetto di desiderio, un oggetto dove poter proiettare i propri pensieri, i propri impulsi, tuttavia, vediamo come il fenomeno si sia un po’ più livellato: anche gli uomini ultimamente vengono utilizzati come elementi dove poter proiettare le proprie fantasie. Dunque la cosa, maggiormente sviluppata in passato, è andata uniformandosi, coinvolgendo non più unicamente la sfera femminile ma ambo i sessi. Sicuramente, in un contesto di mancanza di relazioni e di sostegno, diventa pericoloso notare adolescenti, bambine che investono il proprio futuro su questa direzione, andando alla ricerca di un corpo perfetto, di un lavoro facile, di tutto ciò che può in qualche modo creare degli stereotipi femminili sbagliati, che diventano pericolosi, che diventano luoghi di possibile e profonda fragilità. Immagino quindi che tutto ciò, non ben sostenuto da una famiglia a supporto, possa essere un punto debole, uno dei momenti di alterazione della personalità della ragazza che quindi rischia di trasformarsi in “luogo facile” dove l’uomo può manifestare la propria aggressività.
– I dati statistici parlano chiaro: nell’ultima indagine condotta dall’Istat, in riferimento agli anni 2008-2009 e pubblicato lo scorso novembre 2011 ( i dati più recenti) si evince che la metà di donne tra i 14 e i 65 anni, ha subìto almeno una volta nella vita ricatti sessuali sul lavoro e/o molestie. Più inquietante il dato che rileva che mentre aumentano paurosamente il numero di donne che subiscono violenza, resta inverosimilmente basso il numero di donne che hanno il coraggio e trovano la forza di DENUNCIARE l’accaduto. Come si spiega questa inversa proporzionalità? Perché la donna si fa carico dell’aggressività, della violenza del proprio partner o semplicemente di uno sconosciuto, perché preferisce tacere, tenere tutto dentro, preferisce il martirio alla denuncia?
– E’ un dato che mi stupisce, immaginavo che la diffusione dell’informazione, la creazione di luoghi di ascolto, di associazioni che cercano di tutelare e garantire i diritti delle donne che subiscono violenza potesse favorire la denuncia. Questi dati dunque mi lasciano pensare a un carico di responsabilità da parte delle donne: è come se la donna si assumesse il ruolo di dover contenere e proteggere la violenza per trovare da sola la modalità per poter reagire o denunciare il caso, come fosse un insopportabile segreto che si porta dentro. Quando si subisce la violenza, nella maggior parte dei casi, subentra internamente il senso di colpa, come se la vittima avesse provocato l’abusante, causando la violenza; altro motivo potrebbe che porta una donna al silenzio potrebbe essere la mancanza di rete, di sostegno, di relazioni, la mancanza di fiducia in una società che possa cogliere e aiutare a sostenere un evento traumatico di questo genere, il trauma più grosso che una donna possa subire. E’ ovvio che dopo la violenza, la donna attraversi un periodo di assoluto shock, di depressione reattiva, “un’internalizzazione” dell’evento nelle parti più profonde; dal punto di vista fenomenologico, la rappresentazione dell’evento avviene attraverso un sintomo, una patologia, sinonimo di quello che è successo.
– Quali sono le conseguenze post violenza nella donna?
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