Il periodo universitario può essere ricordato per le nottate di chiacchierate (e studio) passate con i colleghi, per le uscite con gli amici, nelle sere dei mercoledì universitari, o invece, per il tempo interminabile passato sui libri prima di ogni esame, con la sensazione di essere comunque impreparato.
In casi come questi l’universitario medio può reagire in diversi modi. Potrebbe vivere il periodo di preparazione all’esame provando una preoccupazione fisiologica che favorirà la sua performance attivando il cosiddetto eustress (stress positivo), che gli consentirà di affinare le sue capacità intellettive, permettendogli di adattarsi positivamente a quella situazione (l’esame) dove sono in gioco le sue capacità mnemoniche, la sua conoscenza e l’apprendimento. Oppure potrà essere influenzato negativamente dalla paura di non riuscire a superare la materia, vanificando così i suoi sforzi e il suo impegno, senza riuscire portare a termine con successo l’esame.
In generale, per gli studenti universitari e tutti coloro i quali si confrontano periodicamente con “prove” e scadenze, è più alta la possibilità di soffrire d’ansia e di attacchi di panico. Nel primo caso, intenderemo una paura generalizzata, uno stato del proprio corpo e della propria mente che non permette di affrontare con lucidità determinate situazioni (ad esempio l’esame); nel secondo caso invece, si tratta di un momento in cui si percepisce un pericolo e si attivano tre componenti dell’essere umano: la componente cognitiva, dove si valuta la presenza di una minaccia imminente; la componente emotiva, dove si prova paura; la componente fisiologica, con cui il sistema nervoso simpatico si attiva e prepara il corpo alla modalità di attacco e/o fuga.
Secondo il nuovo DSM-V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) redatto e revisionato dall’APA (American Psychiatric Association), l’ansia d’esame può essere assimilata all’interno dei più generici disturbi d’ansia: uno stato della psiche, come suggerisce Wikipedia, il più delle volte cosciente, caratterizzato da preoccupazione e paura, più o meno intensa e duratura, che può essere connessa o meno a uno stimolo specifico immediatamente individuabile, e di una mancata risposta di adattamento dell’organismo a una qualunque determinata e soggettiva fonte di stress per l’individuo stesso: l’esame (in questo caso).
Per affrontare una verifica, sono stati osservati diversi tipi di metodi di studio di un testo. John Biggs (1997) ne ha identificato tre: superficiale, profondo e strategico.
Secondo i dati rilevati dal primo rapporto biennale Anvur sullo stato di università e ricerca, 4 iscritti su 10 rinunciano agli studi prima di conseguire la laurea triennale. L’ Italia ha evidenziato un numero altissimo di fuori corso, soprattutto per le lauree di primo livello. Gli studenti universitari dei corsi triennali che non portano a termine gli studi, sono il 40%. L’abbandono universitario per le lauree a ciclo unico sono del 63,2 %, e riguarda iscritti da 9 anni dall’immatricolazione. Nei corsi di secondo livello, gli studi li concludono l’80% degli studenti. Ma davvero, “solo” la paura di affrontare un esame e una preparazione non adeguata, spinge numerosi ragazzi ad abbandonare l’università?
Dalle rilevazioni Almadiploma, non sono solo di carattere medico/psicologico le cause di abbandono degli studi, spesso i ragazzi neodiplomati vengono gettati nel mondo (universitario), un po’ alla Heidegger: senza aver potuto scegliere con consapevolezza il loro percorso di studi.
Secondo Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, «la colpa di questi numeri disastrosi (in riferimento all’abbandono scolastico e al conseguente abbandono universitario) ha senza dubbio origine nello scarso orientamento formativo che si pratica nelle nostre scuole già a partire dalla secondaria superiore di primo grado. Se il 17,6% dei nostri giovani lascia i banchi prima del tempo, contro una media dei 28 Paesi Ue del 12,7%, è evidente che i nostri ragazzi si trovano anche a scegliere il loro percorso formativo senza adeguata consapevolezza. Occorre quindi investire nei docenti – tutor, esperti ed esentati dalle lezioni, per fare in modo che possano guidare i giovani nella scelta per loro più idonea» – continua – «per 18 diplomati su cento la scelta universitaria non si è dimostrata vincente: fra coloro che dopo il diploma hanno deciso di continuare gli studi, l’8% ha deciso di abbandonare l’università fin dal primo anno, mentre un ulteriore 10% è attualmente iscritto al’ università ma ha già cambiato ateneo o corso di laurea».
I numerosi casi di abbandono degli studi universitari, pone l’Italia nei posti più bassi delle classifiche europee sul numero di laureati in rapporto alla popolazione. Solo il 22,3% dei giovani tra i 25 e i 34 anni porta a compimento gli studi accademici, contro il 35% del resto d’Europa. Troppo pochi, insomma. Le cause? Secondo l’Anvur la mancanza di corsi a carattere professionalizzante e aggiungerei, poca motivazione talvolta negli studenti e nei docenti, , troppa disorganizzazione all’interno delle università e un futuro alquanto incerto e precario, per ciò che riserva il post – lauream.
Fonti
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