Start up, idee, innovazione, originalità, con l’unica finalità di provare a fare nuova impresa. A tal proposito, abbiamo intervistato il promotore della competizione, il prof. Rosario Faraci, presidente del corso di laurea di Economia Aziendale e presidente del Capitt dell’ateneo catanese.
Prof. Faraci, iniziamo presentando il concorso. Cos’è Start Cup Catania? Chi può partecipare? Su cosa devono focalizzarsi maggiormente i partecipanti per poter centrare l’obiettivo?
Start Cup Catania è una «business plan competition» organizzata dall’Università di Catania e aperta a chiunque, organizzato in team di almeno due persone, non importano età e titolo di studio di provenienza, ha voglia di fare nuova impresa, possibilmente in settori innovativi. Il sito del Capitt contiene il bando, la domanda di partecipazione e la scheda di presentazione dell’idea. La scadenza per partecipare alla prima fase è il 10 luglio. Successivamente saranno scelte nove idee che, unitamente alle tre che hanno vinto Start Up Academy, saranno assistite nella redazione del business plan per poi partecipare alla competition vera e propria che assegnerà 8.000 euro al primo team classificato e 4.000 al secondo, garantendo al primo anche la partecipazione alla finale regionale di Start Cup Sicilia e a quella nazionale del Premio nazionale per l’innovazione.
Quanto è importante l’interdisciplinarietà in un team? Cosa consiglia ai gruppi in via di formazione?
Il mio consiglio, alla luce delle esperienze più virtuose del fare impresa e delle start up di successo, è di creare gruppi formati da giovani con esperienze e background differenti ma complementari. I Contamination Lab, ad esempio, sono promossi con questo spirito di contaminare dal basso e in una logica di “cross fertilization“ giovani provenienti da corsi di laurea e dipartimenti differenti. A fine estate, la nostra Università partirà anche con questa iniziativa promossa da un team coordinato dal prof. Enzo Catania.
L’attrattiva di mercato è sicuramente un punto da attenzionare. Quali sono attualmente i campi “inesplorati” sui quali puntare maggiormente?
Un’idea deve fare riferimento ad un prodotto o servizio che sia utile, capace di risolvere un problema, soddisfare un bisogno o creare un’opportunità per il cliente, per il fruitore, per il consumatore finale. Il mercato potenziale risiede proprio in quello spazio più o meno ampio dove è possibile intercettare i segmenti di clienti, fruitori e consumatori. Spesso invece ci si concentra maggiormente sulle caratteristiche tecniche del prodotto e ci si dimentica di tutto il resto, il mercato in particolare.
Fare nuova impresa al Sud è davvero così difficile? Oppure “la difficoltà” rientra nell’atteggiamento tipicamente pessimista del siciliano?
Sgombriamo il campo da un equivoco. Fare impresa è sempre difficile e rischioso, ma è bello. La “bellezza”, passatemi il termine, sta proprio in questa capacità di mettersi ogni giorno in discussione, pur avendo una visione abbastanza chiara su dove andare. I dati del Global Entrepreneurship Monitor dimostrano che, nella popolazione lavorativa italiana di età compresa fra 18 e 64 anni, l’intenzione di fare impresa è di poco inferiore all’11%, mentre l’effettiva capacità di metter su impresa si riduce drasticamente sotto il 5%. C’è dunque un gap, ma non è detto che questo gap sia superiore nelle regioni del Sud rispetto a quelle del Nord. Anzi, sembra che emerga oggi esattamente il contrario, come ha evidenziato Corriere Innovazione nel volumetto “La Fabbrica di Start Up” appena pubblicato
Da studenti che hanno vissuto la vecchia e la nuova amministrazione d’Ateneo abbiamo notato una certa apertura verso le iniziative come “Start Up Academy”, maggiore partecipazione e maggiore comunicazione. Cos’è cambiato? La nuova amministrazione come sta contribuendo?
C’è maggiore consapevolezza sul fatto che non si può più indugiare sulla cosiddetta “terza missione” dell’Università, cioè dell’Università che fa e promuove impresa e si apre al territorio. In questa terza missione rientra la capacità degli Atenei di promuovere start up giovani, spin off attivati da professori e ricercatori, attività brevettuali e di diffusione della conoscenza, sia in modalità “open innovation” sia nelle modalità più tradizionali della proprietà intellettuale.
Ogni giorno nascono sempre più collaborazioni tra le università siciliane: Catania, Messina, Palermo ed anche la Kore. Quanto è importante “fare squadra” in Sicilia per competere col resto del mondo?
Non andremo da nessuna parte se non faremo squadra, sia chiaro. C’è sempre il rischio nello stare insieme: fraintendimenti, litigi, gelosie e voglia di protagonismo. Ma c’è un grande vantaggio che compensa questi rischi, cioè fare massa critica e presentarsi in modo compatto all’opinione pubblica, al mondo delle imprese e degli investitori, agli altri attori istituzionali. Abbiamo iniziato un cammino in comune con gli altri Atenei siciliani e i risultati già si vedono: abbiamo federato le Start cup locali in Start Cup Sicilia; stiamo portando avanti il progetto “Direte” che vede insieme i tre Distretti tecnologici e le Università di Palermo, Catania e Messina; ospiteremo con Messina la Summer School del Netval, il network delle Università e degli enti pubblici di ricerca per la valorizzazione dei risultati della ricerca scientifica; stiamo facendo interagire i “liason office” dei quattro Atenei, anche con l’auspicio di farli diventare interlocutori più forti e più ascoltati alla Regione Siciliana.
Start Up Academy si è dimostrato un successo: tutor competenti, ospiti internazionali e collegamenti col Ministero. Qual è stata la chiave vincente?
Start Up Academy non nasce per caso. Già da due anni, in collaborazione con Confindustria Giovani e i giovani commercialisti, avevamo fatto tale esperienza al corso di laurea in Economia Aziendale che poi ha promosso autonomamente il contest “Un Vulcano di Idee” interamente gestito dagli stessi universitari. Da quest’anno l’abbiamo estesa all’Ateneo e abbiamo affinato la formula, effettuando una prima selezione delle proposte, organizzando dieci seminari formativi, promuovendo un contest finale di tutti i progetti ammessi in aula. Si è trattato di un momento importante che ha preceduto la promozione di Start Cup Catania e sarà così anche nei prossimi anni. La chiave vincente? Passione, voglia di fare e capacità di contagiare l’entusiasmo.
Il presidente della Fondazione Mind the Bridge, Alberto Onetti, ha dichiarato recentemente che «L’ottanta per cento delle startup finanziate in Italia falliscono, forse anche il novanta: è un dato statistico, ed è un dato positivo. Non bisogna pensare a chi non ce la fa ma pensare a un processo di apprendimento che porta a costituire soggetti più forti». È d’accordo con questa linea di pensiero?
Parliamo di un fallimento non in senso giuridico, ma di una incapacità a proseguire l’attività d’impresa appena avviata o addirittura neppure cominciata, ma soltanto abbozzata sulla carta. E’ abbastanza fisiologico, avviene così anche all’estero. Spetta alle istituzioni, agli investitori, agli incubatori e alle Università lavorare di più e affinare gli strumenti per ridurre tale mortalità. Ma non dimentichiamo pure che molte start up sono innovative e proprio per tale motivo più esposte al rischio di fallimento.
Molte start up nascono, crescono e muoiono. Le statistiche sono impietose, nove su dieci non ce la fanno. Dove si sbaglia?
Ci sono errori a monte, nella composizione del team o nella scelta di un’idea che si dimostra poco fattibile, scarsamente innovativa, e soprattutto non scalabile. Ci sono errori di marketing che sono i più frequenti, soprattutto nella conoscenza del mercato, dei segmenti da servire, nella scelta dei canali di distribuzione e di comunicazione e nella messa a punto di efficaci politiche di acquisizione della prima clientela e di fidelizzazione di quella esistente. Possono esserci ancora errori nella valorizzazione delle risorse più importanti e nell’acquisizione di quelle mancanti. Il problema finanziario non va sottovalutato, anche se non è il principale. E poi c’è l’errore degli errori: credersi autoreferenziali e indipendenti nella crescita, quando il progetto nasce aperto per definizione e potenzialmente in grado di attrarre nuovi partner, nuovi soci, nuove persone. Ed invece ci si chiude in se stessi ed è lì che si sbaglia.
Quanto l’Italia è indietro rispetto all’estero? Perché c’è più difficoltà ad emergere in un paese come il nostro?
Nel nostro Paese manca o è debole la capacità di fare sistema. Non c’è ovviamente una formula valida universalmente per fare start up innovativa, ma non c’è dubbio che laddove esistono circuiti virtuosi di collaborazione fra istituzioni, imprese esistenti, incubatori, formatori, investitori, Università e giovani che vogliono fare start up, i risultati sono straordinari. Catania è un buon modello di collaborazione fra tutti questi attori, è ancora ad uno stadio embrionale ma promettente, anche se obiettivamente l’assenza di qualcuno (vedi gli investitori e gli incubatori) si fa sentire maggiormente che altrove.
L’università attraverso i contest, la città e le aziende attraverso acceleratori ed incubatori. Pare che il Sud si stia comunque svegliando, oppure è solo ‘fuffa’?
Giocando si impara e si stimola la voglia di mettersi in discussione, che è il fondamento primo del fare impresa. I contest aiutano molto i giovani che desiderano promuovere una start up. Molto dipende però dalla loro capacità di continuare ciò che hanno avviato, di essere costanti e tenaci e sempre più professionali, senza fare dell’improvvisazione e dell’appariscenza stili di vita. In ciò vedo la differenza fra chi vuole fare impresa e chi invece fa solo fuffa, come sostiene Briatore.
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