Sentito parlare di skill mismatch? Forse è ciò che ti manca per trovare lavoro. In Europa, l'Italia è ultima per occupazione giovanile, scopriamo il perché.
In Italia, lo abbiamo sentito dire molte volte, i giovani non trovano facilmente lavoro; e, in Italia, di giovani ce ne sono pochi. Il tutto è documentato da Eurostat, dai cui dati emerge che il nostro è il Paese europeo con una delle più basse percentuali di occupazione per gli under 35, anche tra i laureati. È proprio in riferimento al tasso occupazionale dei laureati che siamo in fondo la classifica, con il 65% di lavoratori rispetto al +90% registrato dai Paesi in vetta alla classifica: Lussemburgo, Paesi Bassi, Germania.
A questi dati si aggiunge un tasso demografico che vede l’Italia perdere in vent’anni oltre un quinto dei giovani (più di 3 milioni di under 35), come indicato dalla ricerca “Giovani 2024: Bilancio di una generazione”, presentata il 9 aprile scorso dal Consiglio Nazionale dei Giovani e dall’Agenzia Italiana per la Gioventù. Ebbene sì, siamo tra gli ultimi in Europa anche per gioventù: entro il 2050 solo 8.5% delle popolazione avrà un’età compresa tra i 15-35 anni (Eurostat). Il cosiddetto “inverno demografico” è un dato più che reale e ci costringe a fare i conti con un bacino di lavoratori sempre meno ampio, già insufficiente a soddisfare i bisogni del mondo professionale anche dal punto di vista puramente quantitativo, senza considerare le difficoltà per sostenere dei regimi pensionistici e la spesa pubblica in ambito socio-sanitario e assistenziale.
Insomma, abbiamo poca occupazione tra i giovani, anche se qualificati, e sempre più lavoratori in età matura; a ciò si sommano le basse retribuzioni registrate soprattutto nel settore privato, i contratti precari (79% tra gli under 30) e il calo del potere d’acquisto salariale, per ritrovarci così davanti a uno scenario terrificante, un’Odissea degli under 35 tra i mari del mercato del lavoro. Forse esageriamo, o forse no.
Analizzare la condizione occupazionale dei giovani italiani non è solo un mero esercizio statistico. Analizzare diventa fondamentale per comprendere la collocazione pratica e simbolica delle nuove generazioni nel contesto socio-economico del Paese e soprattutto perché essa costituisce il dato discrimine che determina il passaggio alla vita adulta.
In un periodo storico in cui (malgrado un relativo benessere) il futuro fa paura ai più, i giovani italiani sono fortemente alienati dalle istituzioni, percepite come inefficaci per rispondere alle loro esigenze. L’indagine del “Bilancio di una generazione” già citato riporta che solo il 12% esprime un giudizio positivo sulla sensibilità delle istituzioni verso le problematiche giovanili, mentre per l’85% il livello di attenzione politica nei confronti dei giovani è insufficiente. Le risposte cambiano in ambito se si indaga con lo sguardo rivolto all’Unione Europea, che riceve almeno la sufficienza (6/10) nell’indice di fiducia.
Ma qual’è il vero problema dei nostri giovani laureati? Innanzitutto va considerata la bassa percentuale generale di occupazione in Italia, del 15% minore rispetto alla media europea; poi risulta utile ai fini della nostra ricerca anche dare un’occhiata ai posti di lavoro vacanti. Riportando i dati Istat del secondo trimestre 2023, il tasso di posti vacanti destagionalizzato, per il totale delle imprese con dipendenti, rimane stabile al 2,1%. Sembra un paradosso: i giovani laureati cercano lavoro, eppure tanti posti che richiedono un alto tasso di specializzazione rimangono vuoti.
Per risolvere il paradosso, introduciamo un altro problema nell’Odissea del lavoro giovanile: l’assenza di una direttiva comune tra le competenze ricercate (umane, tecniche e sociali) dal mercato del lavoro e quelle acquisite durante il percorso formativo. In altre parole, quello che vogliono i datori di lavoro non corrisponde a ciò che durante gli anni universitari hanno appreso i laureati, che quindi non vengono assunti: il fenomeno prende il nome di “skill mismatch”.
Lo skill mismatch è una vera e propria disgrazia economica e sociale che riguarda l’Italia e non solo, ma che è per certo sintomo di un troppo debole dialogo tra università e imprese. Questa debolezza produce profili professionali di ridotta trasversalità e acuisce le difficoltà di integrazione dei giovani con la realtà lavorativa al di fuori della aule. Sta proprio qui allora la sfida da superare. Se per alcuni aspetti sono necessari cambiamenti ben più profondi e vasti, per questa mancata corrispondenza di abilità è necessario studiare un piano per venire in contro alle esigenze del mercato senza impoverire il percorso formativo degli studenti che si cimentano in un percorso d’istruzione accademica, tutt’altro che semplice.
Il mondo contemporaneo cambia e si modifica come ha sempre fatto, ed è legge di natura che lo faccia, ma il problema di quest’epoca è che tutto avviene a una velocità disarmante. Il lavoro è frutto dell’agire umano e, così, esso cambia insieme al mondo, l’economia, la cultura. È necessario che anche la formazione accademica allora lo segua, che segua il flusso (forse) inarrestabile del progresso senza fossilizzarsi in schemi e strutture adeguate invece a qualche decennio fa. È necessario che questo accada per i giovani, per il popolo adulto di domani affinché sappia gestire il mondo in cui vive e non venirne travolto, finendo spesso relegato ai margini.
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