Libertà di stampa: a che punto si trova l'Italia? Com'è la situazione in Sicilia? Ne parla ai microfoni di LiveUnict il professore Giuseppe Di Fazio.
Il 3 maggio scorso si è celebrata la Giornata mondiale della libertà di stampa. Come ha ricordato durante una conferenza tenutasi alle Nazioni Unite la direttrice generale dell’Unesco, Audrey Azoulay, il 2022 è stato un anno nero per l’informazione: 86 reporter sono stati infatti uccisi, per lo più al di fuori delle zone di guerra.
In che condizioni si trovano l’Italia e più specificatamente la Sicilia, per quanto riguarda la libertà di stampa? Ne parla ai microfoni di LiveUnict il professore Giuseppe Di Fazio, giornalista pubblicista dal 1986, ex caporedattore centrale al quotidiano “La Sicilia” e tuttora docente di Storia e tecnica del giornalismo all’Università di Catania.
Il giornalismo, con l’avvento di internet e le piattaforme online, ha dovuto subire un forte cambiamento. “La libertà di stampa nel senso tradizionale del termine è molto condizionata oggi – ha infatti detto il professore Di Fazio ai microfoni di LiveUnict -. In questo momento è in atto una specie di guerra dell’informazione nel mondo per due motivi: per accaparrarsi il business delle notizie della pubblicità e perché si sta rivoluzionando l’idea di notizia e di verità, di affidabilità.
A fare le spese di questa guerra sono molti giornali, che muoiono perché i grandi gruppi mangiano i piccoli. Inoltre, se si pensa che per esempio Facebook nel 2021 aveva 2,5 miliardi di utenti (quindi la prima fonte di informazione al mondo due anni fa era Facebook), significa che si possono condizionare veramente la vita politica e le scelte.
Il concetto di libertà di stampa non è come lo pensavamo una volta: è molto più grave, più complesso, perché è in corso questa guerra che riguarda il modo di fare l’informazione e l’oggetto dell’informazione. Ormai la questione è questa: i giornalisti sono dei cercatori di notizie, di verità, o sono solo dei mercanti di notizie?“.
Come riporta la classifica mondiale annuale della libertà di stampa pubblicata da Reporters sans frontières (Rsf), l’Italia si attesta al 41esimo posto su 180. Un buon risultato, ma non ancora ottimo.
“In Italia si sta determinando sempre di più uno stacco tra il lavoro del giornalista e la realtà – ha spiegato l’esperto -. Molti giornali sono passati al digitale ed è passata la logica che la bontà di una notizia deriva dalla quantità di consensi che porta. La domanda, quindi, non è più se la notizia sia vera o no, ma è quanto gradimento ottiene, anche se non fosse vera“.
In particolare, il periodo di pandemia ha segnato in modo profondo il Bel Paese, facendo riflettere sul tema dell’informazione. “Ognuno è diventato medico di se stesso tramite internet e varie ricerche, ha postato informazioni e siamo diventati tutti giornalisti ed esperti. Però, nei momenti più gravi, è venuta fuori una domanda: ‘di chi mi posso fidare?’ Quindi, si è affermata l’esigenza di un’informazione affidabile, perché è questa che serve alla democrazia e non è un caso che nel 2021 il Nobel per la pace sia stato dato a due giornalisti, con la motivazione che un giornalismo di qualità è fondamentale per la democrazia e per la pace“, ha dichiarato il giornalista.
Il report della Ong francese sottolinea inoltre come soprattutto al sud Italia la libertà di stampa sia minacciata dalla criminalità. Infatti, si riporta come giornalisti che indagano sulla criminalità organizzata e la corruzione siano sistematicamente minacciati e talvolta sottoposti a violenze fisiche per il loro lavoro investigativo.
“Una ventina di giornalisti – si legge nel sito RSF – sono attualmente protetti dalla polizia 24 ore su 24 dopo essere stati oggetto di intimidazioni e aggressioni“. Un esempio potrebbe essere Roberto Saviano che, a causa del suo lavoro, ha ricevuto minacce di morte che lo hanno portato a vivere sotto scorta dal 2006.
“Le grandi testate del Sud, da Bari, a Napoli, a Palermo e a Catania, sono tutte in crisi. Per quanto riguarda le minacce da parte della criminalità organizzata, c’è da dire che ciò che la combatte veramente è il buon giornalismo, cioè uno che sta ai fatti, alle inchieste, all’approfondimento – ha detto ancora il professore Di Fazio -, perché paradossalmente anche la mafia ha un criterio di valutazione del nemico reale. Non si spaventa di chi ‘abbaia’, ma di chi effettivamente può farle del male.
Per esempio, nessuno si aspettava che la mafia potesse ammazzare un prete, quando don Pino Puglisi è stato ucciso. Lui era uno che faceva del male alla criminalità perché toglieva manovalanza alla mafia. Anche nel giornalismo chi fa male alla mafia non necessariamente è chi fa inchieste contro di essa, ma spesso fa più danno chi lavora seriamente approfondendo le notizie, per esempio nella vicenda catanese della povertà educativa, della dispersione scolastica.
Quando parliamo di mafia, infatti, pensiamo ai carabinieri che devono prendere i criminali, ma c’è molto più di questo. Nessuno si accorge che a Catania la criminalità organizzata dispone di un esercito a buon mercato di 18 mila ragazzi che non vanno a scuola. Se non si toglie questa manovalanza, si possono arrestare 50 mafiosi, ma ce ne saranno sempre mille che utilizzano bambini per i loro affari“.
Il professore Di Fazio, infine, confessa la sua fiducia nei giovani e nel futuro dell’informazione: “Per l’informazione sta accadendo qualcosa di analogo a quello che è successo al settore del cibo: oggi riteniamo che lo slow food sia una cosa bella, importante, di valore. Si ricerca il ristorante a km 0.
Nell’informazione a poco a poco sta accadendo che lo slow journalism si sta facendo strada di nuovo, si sta capendo l’importanza di avere dei giornali online o cartacei capaci di stare dentro la realtà, di raccontarla, di indagarla, di approfondirla ed interpretarla. Chi fa questo oggi viene premiato, come nel caso dei Nobel. Sono fiducioso soprattutto nei giovani“.
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