Quella delle gelsominaie di Milazzo è una storia non molto conosciuta di donne che hanno lottato per rivendicare i loro diritti: era il 1946 quando organizzarono scioperi e manifestazioni per ottenere condizioni di lavoro più umane.
Dagli anni trenta agli anni settanta, molte delle terre della piana di Milazzo furono destinate alla coltivazione del gelsomino. In particolare, nel 1946 c’erano ben 12 aziende produttrici che davano lavoro a più di 2.000 persone.
La raccolta e la lavorazione del piccolo fiore bianco, infatti, richiedeva molta manodopera e più specificatamente quella di donne e bambine, le cui mani erano più adatte. Tuttavia, le condizioni in cui esse lavoravano erano pessime.
Le gelsominaie cominciavano la loro giornata lavorativa alle due del mattino circa, quando il fiore raggiungeva il massimo del suo profumo e stavano chine fino all’alba, lavorando intensamente con i piedi immersi nella terra bagnata, molte volte causa della comparsa di infezioni.
Spesso, infatti, queste lavoratrici si ammalavano di anchilostomiasi, conosciuta anche come “malattia dei vermi”. Questa era provocata dal verme anchilostoma che, penetrando attraverso la pianta dei piedi, raggiungeva anche il sangue ed i polmoni, provocando gravi anemie ed altri problemi.
Una volta raccolti, i gelsomini venivano messi nella tasca del grembiule e poi riversati dentro le ceste che, piene, venivano trasportate nelle distillerie della città per poi spedire i piccoli fiori in Inghilterra e in Francia per la produzione di profumi.
Per produrre 1 kg di concreta da spedire, però, erano necessari circa 330 kg di fiori. Ogni gelsominaia ne raccoglieva in media circa 3 kg al giorno e la sua paga era di 25 lire giornaliere.
Queste condizioni di lavoro e la misera paga che le accompagnava, portarono le donne a protestare: ad agosto del 1946 le gelsominaie, guidate da Grazia Saporita, una lavoratrice milazzese soprannominata “la Bersagliera”, proclamarono il primo sciopero che durò 9 giorni. Alcune di loro furono arrestate, ma la protesta continuò.
Grazie alla sua lunga durata, lo sciopero riuscì a fare accettare le rivendicazioni: il prezzo dei gelsomini salì inizialmente a 50 lire al chilo, per poi arrivare a 80-90 lire ed infine, nel 1975, a 1050 lire.
Anche le condizioni di lavoro subirono un miglioramento: le lavoratrici pretesero degli stivali per proteggersi dal fango, dei grembiuli contro gli insetti e delle cesoie per rendere meno faticosa la raccolta dei fiori. Inoltre, anche l’orario di lavoro fu messo in discussione e cambiato.
La rivolta delle gelsominaie, però, non rimase confinata alle terre della piana di Milazzo: presto si diffuse in tutto il messinese, coinvolgendo le donne sfruttate negli uliveti, aranceti, nelle fabbriche di sarde salate e nelle cave d’argilla di Santo Stefano di Camastra. Ma non è tutto: la protesta arrivò anche alle lavoratrici degli uliveti pugliesi che si ribelleranno alle loro condizioni di sfruttamento.
La coltivazione del gelsomino cominciò ad entrare in crisi verso la fine degli anni sessanta a causa di diversi motivi: la concorrenza di colture in altri paesi esteri fu un fattore importante, ma quello principale fu la comparsa di fissatori sintetici che, nel mercato dei profumi, presero il posto dei derivati del gelsomino, sicuramente più costoso e difficile da ottenere.
Nel territorio milazzese, quindi, le aree dedicate alla coltura dei gelsomini si restrinsero sempre di più, fino a quando, nel 1978, le aziende chiusero del tutto.
Tuttavia, la storia delle gelsominaie siciliane non deve essere dimenticata: per onorare il coraggio di queste donne, nel 2013 il Comune di Milazzo decise di intitolare loro una strada, chiamata proprio “Via Delle Gelsominaie”.
Inoltre, ad Archi, frazione conosciuta per la presenza di grandi industrie, nel dicembre del 2021 è stato realizzato, dall’artista milazzese Andrea Sposari un murales intitolato “Gelsominaia”, con lo scopo di ricordare a tutti la storia di queste donne.
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