L'identità digitale è divenuta comune con l'ampliamento di internet e delle nuove tecnologie social. Ma, alcune volte, l'uomo tende a far travisare un'immagine diversa della propria identità rispetto a quella reale. D'altro canto, i social network, se usati in modo corretto, possono essere fonte di guadagni ed hanno funzionalità positiva. La redazione di LiveUnict ne ha parlato con un'esperta nel campo dell'identità digitale.
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Nell’ultimo periodo, l’avvento della tecnologia e dei social media ha fatto riflettere su svariati temi legati alla sfera antropologica e alla relazione che intercorre tra l’essere umano e i maggiori mezzi di comunicazione. Una delle tematiche più affrontate, che ha scaturito un grande interesse e creato maggiore dibattito è quella dell’identità, in particolare quella digitale.
A tal proposito, per analizzare nel miglior dei modi il concetto di “identità digitale nell’era del 3.0, la redazione di LiveUnict ne ha parlato con la Professoressa Maria Pia Fontana, docente presso l’Università di Catania di Principi e Fondamenti del Servizio Sociale.
Al giorno d’oggi i social network offrono vantaggi significativi e immediati: semplificano i contatti, rendono possibili scambi di informazioni con un numero enorme di persone. Queste comunità online, però, amplificano i rischi legati a un utilizzo improprio o fraudolento dei dati personali degli utenti; esponendoli a danni alla reputazione, a furti di identità, a veri e propri abusi.
“L’identità digitale è già codificata nella normativa come l’identificativo (SPID) – esordisce la Prof.ssa Fontana – che consente al cittadino di accedere ai servizi digitali della pubblica amministrazione. Da un punto di vista più sociologico e meno burocratico possiamo considerarla come l’insieme complesso e interrelato delle informazioni su un soggetto reperibili on line. Da immensa enciclopedia sul mondo, internet, specie dopo il boom dei social network, si è tramutato nel più grande campionario sociologico di umanità che la storia abbia conosciuto”.
“Nell’identità digitale di ciascuno – continua – in parte confluiscono dati immessi intenzionalmente dal soggetto, in parte invece convergono informazioni attribuite da altri, con o senza il consenso del diretto interessato, oppure si tratta di dati prodotti dai meccanismi di catalogazione ed associazione automatica degli algoritmi”.
“Lo studioso Luciano Floridi (2017) parla di Inforg per intendere il nuovo individuo digitale “informazionale”. Quindi, la risposta alla domanda filosofica per eccellenza, “Chi sono io?”, diventerebbe “Io sono ciò che Google dice di me” – continua la Prof.ssa Fontana -. Altri studiosi parlano di estroflessione del sé intendendo con ciò la tendenza a rendere pubblici dinanzi al proprio network aspetti un tempo riservati della propria biografia o della propria identità, con la conseguenza che diviene sempre più sfumato il confine tra pubblico e privato, anche allo scopo di ottenere crescenti dosi di consenso e di popolarità. Ecco perché il tema dell’identità on line è strettamente correlato a quello del narcisismo che attraversa la rete e che si esprime nel bisogno spasmodico di popolarità mediatica (like, cuoricini, visualizzazioni, follower)”.
L’identità digitale, oggi, si può definire come un vestito che mostra la vita che si vorrebbe avere e che dunque, a volte, si tende a nascondere la propria vera immagine. Ma perché succede ciò? Cosa spinge l’essere umano a crearsi una “vita parallela”?
“Più che una corazza l’essere umano cerca riconoscimento e accettazione sociale – dichiara la Prof.ssa Fontana -. Siamo esseri naturalmente vocati alle relazioni con i nostri simili e abbiamo bisogno degli altri come specchi per rifrangere la nostra immagine. La considerazione che ciascuno costruisce di sé stesso passa in gran parte attraverso ciò che ritiene gli altri pensino di lui, in parte cioè dipende dalla sua reputazione sociale o quantomeno dalla considerazione di cui gode da parte delle persone che egli considera “significative” per lui.
“Entro certi limiti ciò è accettabile. Se tuttavia le dosi di insicurezza personale sono troppo alte, il bisogno di “carezze digitali” cresce in modo esponenziale, con la conseguenza che l’individuo, per alzare la posta della sua gratificazione e della sua percepita accettazione sociale, tenderà a mostrare o a esibire ciò che incontra sempre il gradimento del suo network – continua -. Si comprende come a causa di questa tendenza, diventino molto alti i rischi di omologazione, conformismo, ma anche di frustrazione ed invidia per la continua tensione che porta ciascuno a paragonarsi costantemente agli altri”.
“Sono soprattutto gli adolescenti a rischio di diventare dei camaleonti sociali – spiega l’esperta -, per il loro fisiologico bisogno di appartenenza al gruppo dei pari, bisogno che li può portare a mimetizzarsi con gli altri accettando acriticamente le mode o le proposte dei leader della rete, o degli influencer di turno. Il consiglio è di non dimenticare mai che la conquista dell’identità personale, unica, originale e autentica, è sempre un percorso faticoso che non prevede scorciatoie come l’emulazione passiva di qualche altra persona o dei componenti del proprio gruppo”.
“È inoltre necessario coltivare un dialogo fecondo con la propria interiorità – continua -. Per far fiorire la propria identità, che non è mai statica ma in continuo divenire, occorrono quindi spazi di silenzio e di disconnessione dalla Rete, alla ricerca di una connessione profonda con sé stessi. Questo dialogo, alla base del processo di crescita, è tuttavia divenuto molto difficile in un’era in cui le persone sono sature di “rumore” per l’eccesso di connettività e di informazioni. Il mio consiglio è quindi di imparare a governare le tecnologie e ciò significa non rendersene schiavi, saper mantenere un sano distacco, capire quando è il momento di interrompere il flusso della connettività.”
“Se usate bene le tecnologie possono essere un potente motore di innovazione per il Servizio Sociale – continua la Prof.ssa Fontana -. Tutte le professioni sono state ampliate dal digitale, non solo quelle finalizzate all’aiuto. Attraverso la Rete possiamo già fruire di innumerevoli possibilità di sostegno che intercettano le tre dimensioni classiche di intervento del Servizio Sociale (individuo, gruppo comunità). Grazie ai social media è possibile lenire problemi di solitudine relazionale, fornire indicazioni educative o sanitarie, mettere in collegamento risorse ed offrire soluzioni a problemi concreti, realizzare azioni di sensibilizzazione e di marketing sociale capaci di raggiungere una vasta platea di fruitori per promuovere l’immagine e favorire una migliore conoscenza della professione dell’assistente sociale, mettere in rete operatori diversi, condividere banche dati interattive e così via”.
“Nel prossimo futuro si assisterà sempre di più ad un ampliamento dei servizi e delle opportunità che la persona potrà fruire on line – spiega -, ma conseguentemente si acuiranno i problemi connessi al divario digitale, perché senza possibilità di accedere alla rete o senza adeguate competenze mediali, una larga fetta di popolazione, di norma quella di età avanzata, resterà esclusa dalle potenzialità del digitale. Ecco perché, come argomento nel testo Deontologia come habitus. Introduzione al nuovo Codice deontologico dell’assistente sociale (Franco Angeli, 2021), scritto con M.Giordano, A.Gorgoni e A.Nappi, il digital divide è divenuto una delle nuove frontiere della lotta alla povertà relazionale ed alla marginalità che impegnerà il Servizio Sociale negli anni che verranno”.
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