A che punto siamo col diritto internazionale, il suo stadio d'evoluzione e la concreta o mancata applicazione che trova nei contesti sociali, culturali e anche economici a noi coevi?
Nel 1950, l’Assemblea generale dell’ONU ha istituito la Giornata mondiale dei Diritti Umani. Ogni anno, in occasione del 10 dicembre, viene commemorata la proclamazione della Dichiarazione universale dei Diritti Umani da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, avvenuta proprio nella data del 10 dicembre 1948. Sono ormai trascorsi oltre settant’anni dalla proclamazione della Dichiarazione e quasi trent’anni dall’adozione di un’altra Dichiarazione, dalla capitale importanza, come quella che, durante la Conferenza di Vienna del 1993, proclamava l’universalità e indivisibilità dei diritti umani.
“Dal 1948 ad oggi, la tutela internazionale dei diritti umani ha ricevuto una diffusione capillare: sono numerosi i trattati regionali in materia e lo sono in tutte le aree geografiche, così come è cresciuta moltissimo la distinzione sostanziale dei diritti garantiti – ha dichiarato ai nostri microfoni la dott.ssa Daniela Fisichella, ricercatrice di Diritto Internazionale presso il DSPS dell’Università di Catania –. La tutela internazionale dei diritti umani conosce ogni giorno un’ampia attuazione pratica. Forse ce ne rendiamo conto marginalmente, particolarmente se viviamo in una regione geografica, l’Europa, nel nostro caso, in cui la gran parte delle Costituzioni statali già incorpora dettagliatamente quei diritti fondamentali che, a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, hanno trovato larga ricezione negli ordinamenti nazionali”.
Sebbene la Dichiarazione sia stata intesa come non vincolante, i diritti da questa sanciti hanno registrato “ampia rifusione in numerosi trattati internazionali, come ad esempio la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata nel 1950 dal Consiglio d’Europa; o i due Patti delle Nazioni Unite stipulati congiuntamente nel 1966, uno sui diritti civili e politici, l’altro sui diritti economici, sociali e culturali”.
Il diritto ad un ambiente sano o alla sostenibilità ambientale, il diritto alla pace o allo sviluppo, il diritto all’uso delle risorse naturali sono soltanto alcuni tra i diritti collettivi o di solidarietà che “si distaccano dalla sfera esclusivamente individuale” e vanno inserirsi nelle categorie progressive di diritti di diversa generazione – la terza, in particolare – che nascono direttamente dal capillare radicamento del diritto internazionale all’interno del contesto e dei caratteri propri del nostro presente. Insieme a questi, è possibile rintracciare anche diritti di quarta generazione “relativi alle delicate questioni di bioetica sollevate soprattutto dall’evoluzione tecnologica prodotta dalla ricerca scientifica, in grado d’incidere sensibilmente sulla biologia umana”, ancora in via di consolidamento.
Il carattere universale dei diritti umani, perno imprescindibile della nostra contemporaneità, si è già affermato a livello internazionale, tramite la fitta rete di atti giuridici vincolanti e non vincolanti, come precisato dalla ricercatrice. Tuttavia “il diritto internazionale deve fare i conti con l’attuazione statale di tali diritti che, a sua volta, è l’espressione giuridica della matrice culturale presente in ogni Stato della comunità internazionale”. Se, ad un’attenta lettura delle variegate realtà coeve del nostro tempo, il dichiarato obiettivo dell’universalità dei diritti sembra non essere vincolante per le valutazioni giuridiche di specifici contesti – si pensi alla Cina, all’Iran, Arabia Saudita, Iraq ed Egitto che hanno eseguito, nel corso dell’anno passato, il maggior numero di condanne capitali – ciò è imputabile, dunque, quasi esclusivamente alle diversità esistenti tra i numerosi ordinamenti statali, non soltanto relative a retaggi di matrice socio-culturale, ma anche a disomogeneità di carattere più propriamente giuridico che, di fatto, relativizzano o rendono blanda l’universalità del diritto.
Proprio in relazione a questo, per così dire, “indebolimento” della carica incisoria dell’universalità del diritto, che è possibile menzionare lo strumento di difesa, per eccellenza, dei diritti: la disobbedienza civile. Il secolo scorso ha ampiamente delineato i tratti di questa consueta modalità di resistenza politica, ponendoci di fronte a problematiche umanitarie che, però, non sembrano ancora essersi pienamente estinte nel nostro contemporaneo: si ricordino, senza tuffarsi troppo indietro nei secoli, i recenti episodi che hanno visto protagonista l’attivista hongkonghese Joshua Wong, oppure il movimento statunitense Black Lives Matter, entrambi sintomatologie evidenti di come, ancora oggi, le minacce ai diritti umani sono una realtà, purtroppo, sofferta ed esperita da fette considerevoli della popolazione mondiale.
“Su un piano tecnico, il diritto internazionale non si occupa di disobbedienza civile – sottolinea prontamente la dott.ssa Fisichella –. Sul piano politico, personalmente resto del tutto a favore di questo tipo di resistenza, tanto più che gli Stati preferiscono ignorare violazioni dei diritti umani anche molto gravi, a favore dei propri interessi economici e strategici. Lo vediamo in questi giorni proprio con l’Egitto e l’indisponibilità dei paesi europei a limitare gli scambi commerciali e le intese con questo paese, malgrado siano evidenti le ingiustizie arbitrarie perpetrate da lungo tempo. Si potrebbero fare comunque molti altri esempi, diversi dall’Egitto. Quindi sì alla disobbedienza civile, ma proprio perché è una posizione politica, resta esclusivamente una questione personale”.
Ed è proprio l’Egitto ad essere al centro delle polemiche, ormai da lungo tempo. Si è fatto, infatti, promotore di una gamma di misure repressive contro manifestanti e presunti dissidenti, tra cui sparizioni forzate, arresti di massa, tortura e altri maltrattamenti, uso eccessivo della forza e pesanti provvedimenti restrittivi della libertà personale. La pratica della tortura, inoltre, è rimasta diffusa nei luoghi di detenzione sia ufficiali sia informali. In questi lesivi gangli amministrativi è rimasto terribilmente invischiato Patrick Zaki, attivista e ricercatore egiziano. Patrick si trova dal 7 febbraio 2020 in detenzione preventiva fino a data da destinarsi, accusato dalle autorità egiziane di “incitamento alla protesta” e “istigazione a crimini terroristici” a causa di dieci post di un account Facebook, considerati falsi dalla difesa del ragazzo.
Con lui periscono anche Gasser, Karim e Mohamed “ingiustamente arrestati nel tentativo di difendere la dignità di altre persone. Hanno passato la vita a lottare contro l’ingiustizia e ora si trovano dietro le sbarre”. Sono queste le parole che, una commossa ma risoluta Scarlett Johansson, in un recente e virale videomessaggio, ha rivolto alle autorità egiziane, chiedendo l’immediato rilascio dei quattro attivisti dell’EIPR, l’ong egiziana per la difesa dei diritti civili. Sembra che l’Egitto, dopo l’appello dell’attrice, si sia effettivamente mosso: Gasser, Karim e Mohamed sono stati rilasciati. Ma quanto è stato determinante, se lo è stato, l’appello dell’attrice? “Solitamente, gli appelli lanciati di per sé sono improduttivi di conseguenze concrete, se essi non sono poi accompagnati, in modo palese o anche sommerso, da contatti diretti almeno tra le diplomazie coinvolte” – risponde la ricercatrice.
Benché necessitino di concreti agganci diplomatici, non possono dirsi assolutamente superflui; infatti: “Tali appelli realizzano un duplice effetto benefico: da un lato accendono i riflettori sulla singola violazione di diritti fondamentali, che può riguardare anche una minoranza o un popolo e non soltanto singoli individui – come nel caso qui riferito – e contribuiscono a sensibilizzare l’opinione pubblica, spesso informata poco e superficialmente; dall’altro, l’eco suscitata da questo tipo di azioni da parte di personaggi cari al pubblico mondiale non giova alla reputazione mediatica dello Stato che è ritenuto responsabile della violazione segnalata. E gli Stati sono attentissimi alla propria immagine”.
Questi recenti avvenimenti conducono, infine, ad una riflessione in merito al ruolo che la globalizzazione, coi suoi strumenti di networking, assolve in funzione del riconoscimento e rispetto dei diritti umani. “La globalizzazione certamente promuove lo sviluppo, poiché ne trasmette la percezione dalle aree più progredite a quelle più arretrate e ciò a livello di comunità internazionale complessivamente considerata – si esprime in merito, ancora una volta, la dottoressa Fisichella –. Perché i diritti umani possano ricevere un’applicazione man mano più ampia, occorre innanzi tutto promuovere la consapevolezza di tali diritti e, ancor prima, diffondere modelli educativi e culturali che permettano a cittadini o sudditi di uno Stato di maturare tale consapevolezza”.
“I processi di globalizzazione accelerano la trasmissione dei fenomeni, oltre che delle informazioni ad essi connesse, ma lo fanno in modo asincrono rispetto allo sviluppo di processi che, per poter essere stabilizzati e non rivelarsi effimeri – sottolinea – devono essere endemici, ovvero devono scaturire dall’interno del singolo paese e non investirlo dall’esterno. Abbiamo assistito, ad esempio, al fallimento dei tentativi dell’Occidente di esportare la democrazia altrove, particolarmente a seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti”.
Non sembra, dunque, possibile “liberare” realtà ancora fiaccate da un mancato o superfluo riconoscimento dei sostanziali diritti umani attraverso un’agire impetuoso e insensibile al contesto culturale ancora acerbo di questi, sebbene finalizzato – almeno sul piano formale – alla creazione di istituzioni a carattere democratico sul territorio. Attuali, oggi come allora, le parole riportante nel preambolo della Dichiarazione: “[…]al fine che ogni individuo e ogni organo della società, si sforzi di promuovere con l’insegnamento e l’educazione, mediante misure progressive di carattere nazionale ed internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto di questi diritti e di queste libertà”.
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