Dopo la laurea a Catania, assieme a tanti colleghi i medici Fichera e Martorana hanno preso servizio nelle USCA. Con LiveUnict hanno parlato del loro lavoro d'ogni giorno e del passaggio dall'università alla lotta al virus.
La lotta al Coronavirus, prima che negli ospedali, avviene soprattutto sul territorio. Qui sono attive le USCA e le USCA Scuole, ovvero le Unità Speciali di Continuità Assistenziale che si occupano di gestire i pazienti positivi o sospetti positivi. Due realtà, non solo in Sicilia, fatte di giovani medici, turni lunghissimi, pochi mezzi e tanta voglia di lavorare.
Tra i sanitari in prima linea, termine abusato quanto coerente con il carico di lavoro giornaliero, ci sono anche i dottori Piero Fichera e Francesco Martorana. Il primo lavora nell’USCA Scuole di Palagonia, che copre Scordia, Militello, Palagonia, Ramacca, Castel di Iudica e Raddusa; il secondo nell’USCA di Caltagirone. Entrambi laureati in Medicina a luglio all’Università degli Studi di Catania, hanno sostenuto i test per la scuola di specializzazione a settembre e sono tra gli oltre 14 mila camici bianchi che aspettano di entrare in servizio nelle prossime settimane. A loro LiveUnict ha chiesto di descrivere il lavoro nelle USCA e di spiegare com’è stato lasciare i banchi (ultimamente solo virtuali) dell’università per gettarsi a capofitto nell’emergenza sanitaria.
“Quando ho iniziato a lavorare pensavo che avrei fatto solo le ore di contratto e che avrei trovato una situazione tranquilla qui in Sicilia – inizia il neo-dottore Fichera –. Nella realtà, lavoriamo più del doppio di quello che dovremmo fare da contratto, i casi aumentano ed è difficile starci dietro e soprattutto vedo che il Coronavirus è un nemico particolare. Ancora non siamo riusciti a seguirne le regole, capita di vedere persone di 80 anni positive che non hanno nulla e quarantenni che vanno in insufficienza respiratoria e hanno bisogno di ossigeno”. Nelle USCA Scuole, Piero si occupa delle riammissioni scolastiche degli studenti positivi e della prevenzione del Covid negli istituti, anche se spesso, ammette, a questo si aggiunge il lavoro delle USCA ordinarie. Tra le altre attività, poi, ci sono gli screening in scuole, caserme e comuni, ma anche la messa in quarantena di classi con pazienti positivi.
Turni più lunghi del dovuto (12 ore da contratto, più spesso almeno 13) anche per Francesco. All’USCA di Caltagirone si occupa dei pazienti positivi o sospetti tali e si divide tra lavoro in sede e fuori. All’esterno, i medici si occupano soprattutto di eseguire tamponi e visite a domicilio ai pazienti positivi o con sintomi, ma anche di seguire tutti i casi particolari di chi ha bisogno di assistenza medica e non può recarsi al laboratorio o in ospedale perché positivo. “Gli strumenti non sono ottimi – aggiunge il dott. Martorana a proposito delle visite a domicilio -. Abbiamo solo fonendoscopio, saturimetro e sfigmomanometro per la pressione. Ci limitiamo a prendere i parametri vitali, soprattutto la saturazione, battiti cardiaci e pressione, e se il paziente ha una saturazione bassa o non respira bene decidiamo se allertare il 118 per farlo ricoverare”.
C’è, poi, il lavoro in sede, che include una parte burocratica e legislativa. I medici ricevono le segnalazioni, dal medico di famiglia o dai laboratori, e predispongono i tamponi. In sede avviene anche la valutazione dei pazienti critici, attraverso colloqui con pazienti sintomatici e il monitoraggio di eventuali peggioramenti. Ulteriori compiti sono il caricamento dei referti dei pazienti e la comunicazione dell’avviso di fine isolamento. Al medico di famiglia spetta invece la prescrizione delle terapie ai positivi, in un colloquio costante con le USCA. Senza contare, racconta ancora il dottor Martorana, le decine e decine di chiamate che ricevono ogni giorno.
Un carico di lavoro, insomma, per il quale il personale si rivela insufficiente. All’USCA in cui lavora Francesco i medici sono in 14, ma spesso l’alternanza dei turni non consente di raggiungere il numero ottimale di 9 unità e si ritrovano in 7, o anche in 5 nei giorni di minore affluenza. La situazione, già al limite al momento, potrebbe presto peggiorare. La maggior parte degli specializzandi siciliani, attualmente a lavoro nelle USCA, prenderà servizio nel Nord Italia, svuotando così le unità che reggono il sistema sanitario al momento. E c’è già chi, sicuro di andarsene, si è licenziato.
“Almeno la metà dei medici se ne andranno – commenta il dottor Martorana -. Da metà dicembre fino alla fine di gennaio, se non si decidono ad assumere qualcun altro, la situazione sarà tragica, soprattutto se il carico di lavoro continua a essere questo. L’ASP Catania ha detto che l’incarico USCA è compatibile con la specializzazione, prima non era così. Ma chi inizia la specializzazione può fare massimo 1-2 turni come USCA, perché la scuola impegna già 40 ore a settimana. E, nonostante ci sia stato un miglioramento relativo, ci sono sempre dei focolai che generano una quantità di lavoro enorme”.
L’obiettivo della specializzazione era una priorità già a luglio, quando il nuovo picco dei contagi era solo uno spauracchio e l’Italia si affacciava verso le vacanze estive con voglia di libertà mista a molta incoscienza.
Anche per i due giovani medici, lavorare nelle USCA non era certo il primo pensiero. “Quando ci siamo laureati – ammette Piero -, per l’aria che si respirava a luglio a livello nazionale, vedevamo la seconda ondata come qualcosa di lontano. Il primo pensiero è stato fare il test di specializzazione per pensare al futuro. Quando la situazione è iniziata a peggiorare ci siamo resi conto che le USCA stavano diventando una necessità”.
Situazione simile per Francesco, che però aveva già messo in conto di fare domanda per le USCA o per la guardia medica. “Credo che tutti i colleghi abbiano pensato lo stesso – aggiunge -. Con questo bando e altri, tutti i medici hanno trovato lavoro, ma allo stesso tempo siamo noi che stiamo reggendo la situazione. Quando ce ne andremo tutti, si svuoteranno reparti Covid, Asp, USCA e USCA scuole”.
“Quando si parla di sanità si pensa a chissà che mezzi e tecnologie – aggiunge il dottor Fichera sullo stesso argomento –, in realtà, la sanità sul territorio, più che di mezzi e di protocolli chiari è fatta di persone, attualmente di ragazzi come noi, che più che avere mezzi sofisticati e direttive chiare hanno tanta voglia di fare e di aiutare il prossimo e tanta voglia di garantire la salute ai cittadini”.
Spesso usciti da poco dall’università, i neo-dottori sono anche la categoria più a contatto con la popolazione, quella che maggiormente ha potuto notare i cambiamenti tra prima e seconda ondata. “A marzo c’era molta più comprensione e solidarietà nei confronti della figura del sanitario, visto come l’eroe della situazione. Ora no. Le persone hanno perso la pazienza. Ci sono situazioni tragiche di famiglie con un solo stipendio o lavoratori stagionali tenuti a casa con 4-5 settimane anche se stanno bene. Capita che se la prendano con noi, perché siamo in prima linea e gli diciamo di stare a casa”, spiega il dottor Martorana.
“Tanti seguono le regole e rispettano autorità, medici e infermieri – è il commento finale di Piero – e sanno che non siamo aguzzini, non siamo pagati da nessuna lobby farmaceutica. Purtroppo le mele marce sono ovunque, ma è importante avere rispetto e capire il momento storico che stiamo attraversando”.
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