Non tutti gli studenti partono dalla stessa posizione iscrivendosi all'università. Una situazione che i sussidi per il diritto allo studio non riescono ancora a risolvere, causando significative differenze nella composizione sociale dei corsi di studio.
Anche l’operaio vuole il figlio dottore, cantano i Modena City Ramblers in uno dei loro brani più famosi. La verità, invece, è che le classi sociali meno avvantaggiate hanno anche meno possibilità che i loro figli portino a termine gli studi universitari. Se poi si parla di corsi di lunga durata come Medicina, dove già all’ingresso la selezione è molto dura e spesso bisogna sborsare anche migliaia di euro per un corso preparatorio, le speranze si riducono ulteriormente.
Secondo i dati AlmaLaurea 2020, nel 2019 il 30,4% dei laureati ha almeno un genitore con titolo di studio equivalente. La percentuale, tuttavia, sale al 43,4% tra gli studenti che hanno scelto corsi di laurea magistrale a ciclo unico. Tra le motivazioni addotte dallo studio, la durata, e di conseguenza i maggiori costi in termini di tasse e libri, favorirebbero i figli dei laureati a scapito dei secondi. Un ulteriore step verso l’alto si verifica quando si guardi ai gruppi disciplinari di Medicina e odontoiatria. Qui, almeno uno dei due genitori ha un titolo di istruzione superiore nel 57,1% dei casi. Al contrario, gruppi disciplinari come Insegnamento e Professioni sanitarie sono più accessibili anche alle famiglie con più basso livello di istruzione. Stessa situazione si riscontra sondando la classe sociale di provenienza dei laureati. Gli studenti provenienti da classe sociale elevata sono la maggioranza in Medicina e Odontoiatria e costituiscono porzioni considerevoli anche nel gruppo giuridico e in Architettura.
Presi da soli, questi dati basterebbero a dimostrare che c’è qualcosa di rotto nell’ascensore sociale. La situazione si fa ancora più chiara mettendo in relazione gli studi dei genitori e quelli dei figli. Solo uno studente su cinque, in Italia, segue le orme del padre o della madre (20,2%). Non così per i figli di chi per professione fa il notaio, l’avvocato o il dentista. I principali corsi che danno accesso accesso alla libera professione coincidono infatti con quelli dove la laurea è “di famiglia”. Si tratta, nell’ordine, di Medicina e Odontoiatria (41,8%), gruppo Giuridico (34,3%) ed Economico-statistico (27,3%), tutti sopra la media. Il fenomeno della laurea ereditaria, poi, sembra più diffuso per chi si laurea in un’università del Sud o delle Isole (22,1%) rispetto ai laureati degli atenei del Centro (20,9%) e del Nord (18,8%).
I contesti socio-culturale ed economico influenzano anche la scelta della scuola secondaria di secondo grado, che a sua volta condiziona l’eventuale iscrizione all’università e la riuscita negli studi. Arrivano alla laurea più frequentemente gli studenti provenienti da un liceo (76,5%), una percentuale cresciuta di quasi dieci punti nell’ultimo decennio a scapito soprattutto degli istituti tecnici. Qui, gli studenti che hanno entrambi i genitori laureati è pari al 13,6%, mentre per gli altri percorsi la stessa quota raggiunge al massimo il 3,0%. Allo stesso modo, provengono da contesti socio-economici favoriti il 25,1% dei laureati con diploma liceale, rispetto al 12,1% registrato per i tecnici e al 9,2% per i professionali.
Le differenze nella carriera accademica non sono questione di meriti superiori o di presunti favoritismi di classe, ma di costi. In media, in Italia un anno di studi alla triennale costa 1345 euro; 1520 alla magistrale. La tassazione è aumentata soprattutto negli ultimi anni, rendendo il nostro paese uno dei pochi in Europa in cui sono molti gli studenti che pagano le tasse universitarie e pochi quelli che godono di una borsa di studio. “La scarsa erogazione di borse di studio – si legge nel rapporto AlmaLaurea 2020 – rende gli studenti dipendenti dal supporto economico familiare e limita di fatto l’accesso all’educazione terziaria, in particolar modo alle categorie meno favorite”. Si tratta di una percentuale altissima. Solo il 12,8% degli studenti, meno di uno su sette, riceve infatti una borsa di studio, malgrado negli ultimi anni siano arrivati segnali positivi, grazie alla crescita degli studenti idonei beneficiari (97,4%) e all’introduzione nel 2017 della no-tax area.
Dato lo scarso numero di beneficiari, non stupisce che i borsisti vengano soprattutto da contesti socio-culturali ed economici meno favoriti. Il 29,4% dei fruitori di borsa di studio non ha genitori laureati, mentre il 42,5% viene da contesti economici più difficili. Una buona fetta, poi, è composta da studenti fuorisede in una regione diversa da quella d’origine. Insomma, spesso la borsa di studio costituisce l’unico strumento per far ripartire l’ascensore sociale. E lo dimostrano i risultati. Rispetto ai colleghi non beneficiari, i borsisti hanno carriere migliori in termini di voto di laurea e regolarità dei corsi di studi. Inoltre, usufruiscono maggiormente di periodi di studio o tirocinio all’estero e sono più disponibili a lavorare in un altro Paese europeo.
Questi dati non stupiscono chi per tanti anni ha goduto dei servizi di diritto allo studio universitario, ma sono stati recepiti con notevole ritardo dal governo. L’Italia è al penultimo posto in Europa per numero di laureati, dietro solo alla Romania. Solo quest’anno, però, impaurito dallo spauracchio di 10 mila iscritti in meno a causa dell’emergenza sanitaria ed economica, il Ministero dell’Università è corso ai ripari, strappando al governo un aumento di 40 milioni per il Fondo Integrativo Statale destinato alle borse di studio e investendo oltre 160 milioni per innalzare la no-tax area a 20 mila euro, con ulteriori sconti sulle tasse universitarie.
In estate, poi, le università hanno fatto letteralmente a gara per non perdere matricole, alzando ulteriormente l’area di esenzione dalle tasse (anche fino a 30 mila euro) o regalando agli studenti meno favoriti abbonamenti internet o tablet per seguire a distanza le lezioni. Il risultato? Complici anche le innovazioni sul piano della didattica, gli atenei hanno segnato una crescita tra il 5 e il 10% nel numero di iscritti. Un aumento avvenuto soprattutto al Sud, dove da anni è in corso un’emorragia di iscritti e dove le condizioni economiche sono peggiori. Insomma, in attesa di conoscere i risultati dei nuovi studenti, il mondo dell’università entra nell’anno nuovo con due consapevolezze: che investire paga e che non basta un’eccezione data da un anno straordinario per rilanciare davvero gli atenei.
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