Le navi-quarantena pongono dubbi di diverso genere sul loro utilizzo, non ultimi quelli di natura giuridica e di tutela dei diritti umani. Ne ha parlato con LiveUnict il professore Salvatore Zappalà, direttore del dipartimento di Giurisprudenza e docente di Diritto Internazionale.
I migranti che sbarcano sulle coste siciliane devono essere posti in regime di quarantena per un periodo non inferiore a 14 giorni, a bordo dell’imbarcazione d’arrivo o di navi-quarantena predisposte ad hoc. Questo prevede l’ordinanza n.29 del 30 luglio firmata dal presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, in un’estate in cui al tema sbarchi si è sommato quello dell’emergenza sanitaria.
Le navi-quarantena sono state istituite dal governo il 12 aprile, in pieno lockdown, ma, come forse prevedibile, si stanno rivelando uno strumento utilizzato e discusso soprattutto nei mesi estivi, con l’aumentare degli arrivi dei migranti.
L’utilizzo delle navi-quarantena, infatti, ha destato numerose perplessità sotto diversi punti di vista: i costi per il noleggio delle barche, che spesso appartengono a privati; le possibili criticità sotto il punto di vista del contenimento del contagio tra i migranti in strutture isolate e di dimensioni, per forza di cose, ridotte; le implicazioni psicologiche che potrebbe avere il confinamento in mare per due settimane di persone che hanno attraversato il canale di Sicilia a bordo di imbarcazioni di fortuna, rischiando anche di naufragare.
Ai dubbi di diversa natura sull’utilizzo di queste navi, si sommano quelli giuridici. LiveUnict ne ha parlato con il professore Salvatore Zappalà, docente di Diritto Internazionale presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania e direttore del dipartimento stesso.
Le convenzioni internazionali per la salvaguardia della vita umana in mare prescrivono per chi viene soccorso, una volta messo in salvo, lo sbarco in un luogo sicuro, il cosiddetto Place of safety (Pos). Ci si chiede quindi se il confinamento dei migranti a bordo di una nave, a volte anche senza passare dalla terraferma, possa essere considerato tale.
“Le norme internazionali in materia di salvataggio delle persone in difficoltà in mare, a rischio della vita – spiega il professore Zappalà –, hanno fatto nascere – sulla scorta di antichi principi cari alle marinerie di tutto il mondo – un sistema articolato di meccanismi che prevedono il salvataggio e lo sbarco in porto sicuro. Naturalmente, tali norme sono nate in maniera autonoma, disgiunta dalle regole in materia di ammissione e allontanamento degli stranieri, e vanno attualmente bilanciate con le prescrizioni emergenziali legate alla situazione sanitaria e al COVID-19.
Tutti questi gruppi di norme – continua il docente – devono rispettare le esigenze di tutela dei diritti fondamentali, ma il bilanciamento delle varie istanze va condotto in relazione alle specifiche situazioni.
Lo sbarco in luogo sicuro – una volta salvate nell’immediatezza del pericolo le vite a rischio – ha poi l’obiettivo di permettere alle persone in questione di riprendere i loro percorsi. Certo, l’intersecarsi dell norme sui salvataggi con i fenomeni migratori ha posto nell’ultimo decennio ormai una serie di altre questioni legate al controllo dei flussi, ma non vanno confusi i diversi piani.
In ogni caso – conclude -, lo stato costiero dopo avere svolto il salvataggio deve mettere in atto una serie di misure e procedure atte a “trattare” le diverse questioni che si pongono in maniera corretta, nel rispetto delle regole sull’emergenza sanitaria e della tutela dei diritti umani”.
Non è la prima volta che migranti in arrivo sulle coste italiane vengono trattenuti a bordo delle imbarcazioni d’arrivo per giorni. La questione ha sollevato in passato numerose proteste (basti pensare ai casi Diciotti e Gregoretti) per il mancato rispetto dei diritti umani e delle leggi internazionali sui soccorsi in mare. Rispetto ai casi precedenti, tuttavia, l’emergenza sanitaria ha reso necessaria l’adozione di nuovi protocolli. A non essere cambiate, invece, sono le condizioni di chi arriva.
La pandemia in corso può giustificare, dal punto di vista della tutela dei diritti umani, il trattenimento a bordo di una nave di gruppi di individui che spesso, a causa dei rischi della traversata in mare e non solo, potrebbero trovarsi in condizioni psicologiche precarie?
“Le misure di natura sanitaria – risponde il professore Zappalà – possono, laddove siano ben fondate, giustificare restrizioni temporanee. D’altra parte, le quarantene storicamente sono state tra le primissime misure di cautela adottate per ridurre i rischi di diffusione delle malattie contagiose… evidentemente esse implicano una compressione delle libertà di movimento a prescindere dalla situazione (se si ripensa alle più rigide fasi del lockdown risulta evidente fino a che punto ci si possa spingere).
Quindi – conclude – la risposta è sì, ma con la necessaria cautela e senza eccessi immotivati. Non sarebbe corretto utilizzare emergenza COVID-19 per restrizioni indiscriminate e irragionevoli dei diritti”.
L’utilizzo delle navi-quarantena è sotto accusa da parte delle organizzazioni umanitarie da quando, il 20 maggio, un ragazzo tunisino si è gettato in mare ed è morto nel tentativo di raggiungere la costa. A casi di intolleranza estrema del trattenimento dei migranti a bordo delle imbarcazioni, si sono sommate in questi giorni, e hanno destato molto più clamore dal punto di vista mediatico, le fughe da diversi centri accoglienza. Il caso più recente riguarda 53 migranti, non positivi al virus, fuggiti dall’hotspot di Pozzallo.
Sembra doveroso, quindi, pensare a delle soluzioni alternative. Ma quale potrebbe essere la scelta più rispettosa nei confronti dei diritti di chi sbarca e più sicura dal punto di vista sanitario?
“Il ricorso al trasferimento su imbarcazioni di dimensioni più grandi – dichiara il direttore del dipartimento di Giurisprudenza –, attrezzate per rispondere anche a esigenze sanitarie, accoppiato con misure che permettano di distinguere e poi separare le persone positive e/o a rischio COVID-19 dalle altre può essere uno strumento utile. Potrebbe probabilmente essere più facile farlo sulla terraferma in centri attrezzati (soluzione in corso di adozione con la tendopoli in territorio di Vizzini, ma recentemente fermata dall’ultima ordinanza di Musumeci. Ndr). Si tratta di scelte che vanno fatte in modo razionale sulla base dell’efficacia e delle risorse.
Purtroppo si sono sommati – conclude –, com’era prevedibile (e forse già previsto), i problemi che riguardano la gestione dei flussi con quelli dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, le questioni vanno tenute distinte ed affrontate con la dovuta serietà, tenendo presente esigenza di tutela della vita umana, di emergenza sanitaria, di rispetto dei diritti fondamentali e di regolamentazione dell’ammissione e allontanamento degli stranieri”.
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