Disinformazione: nell’ambiente in cui quotidianamente viviamo questo termine è ormai entrato nel vocabolario di ciascuno di noi. Ma cosa è la disinformazione, quali sono le sue conseguenze e come bisogna difendersi da essa?
Oggi più che mai è fondamentale affrontare il tema della disinformazione. LiveUnict ha fatto qualche domanda sull’argomento al professor Francesco Pira, docente di comunicazione e giornalismo presso l’Università degli studi di Messina, per comprendere a fondo il significato del termine disinformazione e cosa fare perché questo fenomeno non dilaghi.
“La disinformazione appare come un prodotto conseguenza diretta dell’affermarsi dell’era della post modernità, costruita sul concetto di società mediatizzata nella quale le post verità prendono il sopravvento, facendo così emergere la mis-information e la dis-information, intesa quest’ultima come l’uso strumentale e manipolatorio delle informazioni per definire una specifica narrazione e visione del mondo.
Un sistema che appare sempre di più costruito sulla polarizzazione delle opinioni, che a sua volta trae forza dal concetto di confirmation bias, in funzione del quale l’attenzione degli individui si focalizza solo sui fatti che sono in linea con le proprie convinzioni, escludendo di conseguenza tutte le posizioni che sono in contrasto e alternative rispetto al proprio sistema di valori. È chiaro che il radicarsi di queste pratiche nello sviluppo dei flussi informativi e comunicativi, tende a distorcere in modo profondo i meccanismi di costruzione dell’opinione pubblica e della conoscenza. Ecco spiegati fenomeni di polarizzazione e radicalizzazione nella società”.
“Partiamo dall’oggi, la pandemia e il distanziamento sociale. In questo frangente siamo stati tutti catapultati, volenti o nolenti, in un universo che vive e si alimenta di tecnologia. E mai come ora ci siamo resi conto che l’idea stessa di pensare alla media education e media literacy come qualcosa di a se stante sia un concetto totalmente sorpassato. Già alcuni anni fa, uno dei sociologici che più hanno studiato il rapporto tra nuove generazioni e tecnologie sosteneva, con grande anticipo, quanto fosse indispensabile affrontare alcuni problemi per entrare in una prospettiva incentrata sui processi tesi a realizzare una cultura partecipativa come risultato della governance positiva degli ambienti digitali.
Jenkins individua tre problemi che devono essere risolti come risposta a quello che definisce l’errore più macroscopico che si fa nei confronti dei giovani, ossia il lasciar fare, ritenendo che per il solo fatto di essere nati in epoca digitale abbiano gli strumenti d’interpretazione per affrontare questi nuovi ambienti:
Ecco, Covid-19 ci sta mostrando quanto il tema delle diseguaglianze sia centrale. Bambini e ragazzi che seguono le lezioni sugli smartphone con connessioni instabili, piuttosto che sui telefoni dei genitori che rappresenta l’unico strumento tecnologico presente. Un diseguaglianza composita che mette insieme il gap culturale e quello economico. Ancora oggi la tecnologia non è processo, non è messa al servizio della conoscenza, è strumento di connessione ma non è elemento di supporto alla costruzione della conoscenza. Così resta opaca, non si realizza quella trasparenza che ci consente di osservare sviluppando senso critico. L’aspetto dell’etica è poi quello più delicato e pieno di implicazioni. La disintermediazione ci ha illuso di poter agire senza regole, convinti di essere al centro, dotati di potere. Le regole sono invece un pilastro fondamentale, perché ci consentono di attuare un processo di interiorizzazione che porta anche all’evoluzione delle regole stesse, ma in un quadro condiviso e non in un far west di sopraffazioni e disinformazione che manipola le coscienze degli individui, in particolare delle giovani menti in costruzione.
È chiaro che è indispensabile superare i modelli di media education che sono stati adottati sin qui, non è più sufficiente introdurre percorsi trasversali nei cicli scolastici, i modelli stessi di somministrazione della conoscenza devono cambiare e cercare di sfruttare le tecnologie per ribaltare la prospettiva della manipolazione con quella del governo della tecnologia. Non più una Media Education come educazione ai media, piuttosto essa deve diventare strumento di un nuovo approccio strategico alla formazione. L’utilizzo delle tecnologie per leggere la realtà in mutazione all’interno di un percorso formativo disciplinare che supporti i processi di sperimentazione e messa in campo delle competenze apprese”.
“Ormai da diversi anni assistiamo ad un processo di fragilizzazione del sistema informativo che ha prodotto il risultato che i media hanno e stanno continuando a svolgere un’azione catalizzatrice incapace di veicolare valori alti trasformandosi in mero specchio della società anche nei sui aspetti più deteriori. Il sistema sembra non essere più in grado di assolvere al suo ruolo primario che è quello di intermediazione tra la realtà e la sua rappresentazione. Una deriva che l’avvento dei social ha acuito. Il principio di uniformità culturale e di un’audience unificata si sono rafforzati in conseguenza della forza di penetrazione del sistema della disinformazione che è diventato così potente da trasformarsi in una vera e propria industria della disinformazione.
Dunque, per rispondere al quesito, certo che la disinformazione ha un ruolo, essa ha il ruolo costruito sulla base di una strategia ben precisa, volta a generare flussi crescenti che a loro volta producono enormi quantità di denaro. Messaggi costruiti per sfruttare il potere dell’algoritmo per modificare la percezione del reale, alterare i bias cognitivi in base ai quali gli individui definiscono il frame culturale di riferimento e attribuiscono veridicità ai contenuti a cui vengono esposti. È del tutto evidente che se la rappresentazione prevale sulla realtà dei fatti, possiamo manipolare, alimentare le paure, l’odio per il diverso, annullare il senso profondo delle regole della convivenza civile e stimolare quella idea distorta secondo la quale ciascuno può, in virtù, di false certezze e dell’idea del tutto parziale della realtà asservita ai propri bisogni, scatenare la propria violenza contro chiunque nella propria visione si frapponga tra noi e l’immaginario che ci siamo costruiti. Emotivismo sommato ad una crescente incapacità di leggere la realtà”.
Qual è l’ “antidoto” alla disinformazione, come difendersi e come muoversi nei social media, dove il rischio di cadere nella trappola della disinformazione sembrerebbe più elevato?
“Siamo di fronte ad una sfida di rilevanza globale che può essere realizzata solo se si da vita ad una nuova costruzione autonoma di significato. Bisogna innescare un nuovo processo culturale che deve investire la politica, il mondo dell’informazione, il sistema dell’istruzione e della conoscenza. Se ciascuno riesce a recuperare il proprio ruolo e torna a guidare il processo, costruendo nuove regole e non semplicemente adottando regole e strumenti che l’industria del web (e quindi in parte della disinformazione), realizza per alimentare il proprio business, allora sarà possibile invertire l’attuale tendenza. Solo la cultura e gli strumenti d’interpretazione possono sostenere gli individui e la società nel suo complesso. E questo è possibile solo se le dinamiche relazionali e di costruzione di capacità di confronto su opinioni diverse riescono a prevalere sulle dinamiche perverse scaturite dall’uso distorto del confirmation bias e l’iper-generazione di effetti polarizzanti.
Ciò significa uscire dalla dinamica click response, per utilizzare la tecnologia come parte di un processo evolutivo che non genera semplicemente interconnessioni ma è in grado di dare vita a nuovi modelli relazionali in una reale integrazione tra reale e virtuale, in contrapposizione al dissolvimento del reale e ai processi di precarizzazione identitaria attualmente in atto.
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