“Taliàri” e “mischinu”: come la cultura araba ha influenzato il dialetto siciliano

La lingua siciliana è in tutto e per tutto figlia della storia. Quali sono i cambiamenti introdotti dal lungo periodo in l'Isola fu un emirato? Scopriamo alcuni dei termini più utilizzati derivanti dalla lingua araba.

Parlare è un’azione tanto comune quanto respirare. E con il respiro ha una caratteristica in comune: l’automaticità. Ogni giorno vengono dette, pensate, scritte migliaia di parole, senza accorgersi di che gran dono è la lingua, a prescindere da quella parlata. Ma sappiamo davvero tutto di ciò che esprimiamo? Da dove deriva ciò che viene detto? Per lingue come il siciliano, con tutte le sue mille varietà, la risposta è più intricata di quel che si può immaginare.

La lingua dell’Isola è infatti stata influenzata, sin dalla sua nascita, da molteplici influenze: greche, latine, anche arabe. Ciò che il siciliano medio parla, ogni giorno, è un cocktail linguistico unico e impossibile da riprodurre. Quando spesso si dice, scherzando, “è arabo”, non ci si rende conto del fatto che, realmente si sta parlando, in parte, un arabo trasformato nel corso dei secoli. Lo si trova nelle parole di ogni giorno, nelle espressioni discorsive. Ma per analizzare questa influenza, occorre prima partire dalla storia. Com’è arrivata la lingua araba in Sicilia?

La Sicilia islamica

L’impero arabo è stato legato alla Sicilia per un lungo periodo: più precisamente, dall’827 d.C. al 1091. Lo sbarco avvenne nel trapanese: Mazara del Vallo, infatti, diverrà il primo emirato dell’Isola. Si susseguirono, in un’avanzata di conquista durata fino al 902, il resto delle province siciliane: Palermo, seguita da Messina e Ragusa, fu presa nell’831, Enna nell’859, Taormina, ultima roccaforte, cadde ad agosto del 902.

Durante la dominazione araba, la Sicilia conobbe un periodo di splendore. Basti pensare che l’economia rifiorì, anche grazie ad una totale rivoluzione dell’agricoltura: vennero introdotti agrumi come l’arancia e il limone, si cominciò a coltivare la canna da zucchero. Quanto alla religione, essa non fu imposta ai “non arabi”; a coloro che volevano mantenere il proprio credo, però, fu imposta una fiscalità più pesante. Il risultato fu la totale conversione della parte occidentale dell’Isola.

La dominazione andò sempre più ad indebolirsi: più si susseguirono gli emiri, meno territorio riuscirono a conquistare, tanto meno a tenere. Le altre dominazioni in Italia, in oltre, miravano a scacciare i musulmani dallo Stivale. Fu così che nel 1061, la Sicilia subì un’invasione da parte degli Altavilla: si scatenò una guerra, sostenuta anche in parte dalla Repubblica Marinara di Pisa, che ebbe fine trent’anni dopo con la caduta di Noto, nel 1091.

La lingua araba e il siciliano

Terminata una così lunga dominazione, la lingua non poté che restarne trasformata. E tracce di quei cambiamenti linguistici, al giorno d’oggi, si ritrovano in alcune delle parole che vengono usate abitualmente. Basti pensare a certi cognomi, comunissimi, terminanti con la desinenza -alà: derivano nientemeno che dal termine Allah. Così, Vadalà significherà servo di Allah, mentre Zappalà, invece, andrà a significare forte in Allah.

Anche molti luoghi prendono il proprio appellativo dall’arabo. Si parta dal vulcano buono: l’Etna infatti viene chiamato, in dialetto, mungibeddu. Questo termine non può che derivare dall’arabo: ci si riferiva all’Etna con la terminologia Jabal al-burkān (montagna del vulcano), presto trasformatasi in Mons Gebel (una mistura di latino e del termine arabo jabal, letteralmente “monte”).

Così, dalla radice jabala non possono che derivare i nomi di altri luoghi, come Gibellina, Gibilrossa o Gibilmanna; allo stesso modo, dalla radice fara (gorgoglio dell’acqua) deriva il nome proprio di Favara, comune nell’agrigentino, il cui significato tradotto dall’arabo è “sorgente d’acqua”.

Non mancano, infine, le parole di ogni giorno. Guardare, in siciliano, si dice taliàri: la parola deriva dalla radice araba talaya. Molti generi di cibi prendono il loro nome dalla lingua araba: lo zafferano (zafarān), il carrubo (harrub), la cosiddetta “giuggiulena” (gulgulān), la varietà di pesche tabacchiere (da tabaq, o “piatto”), infine l’amatissima cassata (qashata).

Figurano ancora, tra le parole spesso usate, la zagara (zahr, “fiore”), il “tabbutu” (tābūt); ultima ma non meno importante, la tipica espressione siciliana “mischinu!”, derivante nientemeno che dall’arabo miskīn. Sarebbero ancora tante le parole da elencare e tradurre, ma bastano già pochi esempi per rendersi conto dell’incidenza della lingua araba sul siciliano, un idioma quasi considerato come astratto, inarrivabile, eppure così comune di giorno in giorno.

La lingua siciliana, insomma, si presenta ancora una volta in modo sorprendente: non vi è un’influenza che non la caratterizzi. Si può dire che essa sia una vera e propria figlia della storia, che la storia stessa, un seguito di dominazioni e cambiamenti, l’abbia costruita nei secoli. Tra le molteplici varietà di lingue e dialetti nel mondo, il siciliano rappresenta ancora una volta, dunque, un caso unico e allo stesso tempo raro, le cui ricerche al riguardo non avranno mai fine.

Cristina Maya Rao

Classe '97, frequenta il corso di Laurea Magistrale in Scienze del Testo per le Professioni Digitali. Ama parlare di storia e cultura siciliana, ma anche di musica, arte, astronomia ed eventi: mentre scrive, impara sempre qualcosa di nuovo.

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