Tra i criteri di valutazione degli atenei alla base delle classifiche pubblicate ogni anno da vari enti, su tutti il Censis, tre sono i punti deboli per gli atenei del Mezzogiorno.
Nell’ultima classifica Censis sulle università italiane gli atenei meridionali sono, ancora una volta, in coda alla classifica. Non importano la grandezza e il numero di iscritti: che siano considerati come “mega”, “grandi” o “piccoli”, gli atenei a Sud di Roma sono quasi sempre a fondo pagina. In un recente incontro tenutosi a Palazzo delle Scienze, lo stesso ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha accennato alla questione, sostenendo che i criteri adottati per le graduatorie penalizzano le università meridionali. È davvero così?
La tentazione è di rispondere di sì, almeno in alcuni casi. Dei cinque punti che determinano la posizione in classifica, sono tre quelli su cui gli atenei del Sud ottengono le valutazioni più basse: “Borse“, “Internazionalizzazione” e “Occupabilità“. Su tutti, il criterio su cui le università sembrerebbe che possano fare meno è forse l’ultimo. Il rapporto SVIMEZ relativo all’anno 2017 (preferito rispetto ai più recenti perché il criterio di “Occupabilità”, così come gli altri, si riferisce ai dati di quell’anno) sottolinea come il Mezzogiorno debba ancora recuperare i numeri di occupati precedenti alla crisi del 2008, con tassi di disoccupazione giovanile alti più del doppio rispetto al Centro-Nord (35,8% contro 16,1%). Il dualismo tra Nord-Sud si ripercuote, non è una novità, anche sull’aspetto lavorativo. Ma andiamo con ordine.
Nel 2017 il capitolo “borse di studio” ha avuto due volti: da un lato, il ritardo di diversi mesi con cui il Miur ha approvato il Fis, il Fondo integrativo statale per coprire le borse di studio distribuito su base regionale, ha generato diverse inefficienze negli enti per il Diritto allo Studio Universitario. Dall’altro, i diversi criteri di distribuzione adottati hanno permesso di dare di più alle regioni che avevano una percentuale maggiore di “idonei non assegnatari”, come la Sicilia, che si è vista attribuire 25,7 milioni per la concessione di borse di studio, quasi il doppio rispetto all’anno precedente.
Proprio il caso della Sicilia è alquanto anomalo rispetto al resto della Penisola. Nella classifica Censis, infatti, al punteggio “Borse” gli atenei dell’Isola prendono punteggi bassissimi: 68 su 110 Catania, 67 Palermo e 70 Enna Kore. Si distingue Messina, che totalizza 99 punti, ma non basta a coprire la debacle. È probabile che sul voto abbiano influito i ritardi del Miur, tant’è che nel corso del 2018 gli studenti catanesi ricorderanno diversi scorrimenti della graduatoria degli assegnatari, tuttavia il dato negativo risalta se confrontato con altri atenei italiani. Infatti, considerato che il problema “ritardi Miur” ha toccato tutti, non si capisce come a soffrirne siano stati soprattutto gli enti siciliani.
A tal proposito, le banche dati del Ministero per l’Istruzione permettono di fare una interessante scoperta. Qui si legge infatti che, malgrado i ritardi di quell’anno, il rapporto tra borse di studio erogate e idonei è pari al 100% per moltissime regioni italiane e per tutte ha percentuali superiori al 90% di borse coperte, lasciando fuori pochissimi studenti. L’eccezione sul panorama italiano è rappresentata dalla Sicilia: qui, a fronte di 16.699 idonei, sono state erogate 12.940 borse di studio, un tasso di copertura del 77,5% (Fonte: Elaborazioni su banche dati MIUR, DGCASIS – Ufficio VI Gestione patrimonio informativo e statistica).
Anche se gli altri atenei, compresi quelli meridionali, riescono a coprire il numero di idonei, ciò non significa che per il Censis siano tutti sullo stesso piano. Le borse di studio sono di certo il dato più importante da rilevare, tuttavia il parametro considera anche “attività di collaborazione a tempo parziale, prestiti d’onore e altri prestiti agevolati, premi per il conseguimento del titolo, contributi finanziari per il trasporto, altri sussidi erogati dagli Atenei e dagli Enti Diritto allo studio. Inoltre a seguito della Rilevazione Censis presso tutti gli Uffici di Statistica degli Atenei si sono presi in considerazione anche premi di studio concessi agli studenti con finanziamento da parte di privati”. Ciò fa sì che ci siano poli, come l’Università della Calabria, che ottengono 110, il massimo punteggio, e altri, come Napoli Parthenope e Napoli L’Orientale, che totalizzano 66 punti, il minimo.
Anche su questo punto gli atenei meridionali oscillano, tra i 66 punti delle Università del Molise e di Catanzaro, e gli 82 punti di Napoli L’Orientale. Per l’elaborazione di questo punteggio, il Censis tiene conto di numerosi fattori: il numero di iscritti stranieri, la mobilità in entrata e in uscita, la spesa degli atenei per favorire la mobilità, i corsi di laurea in lingua inglese e corsi di studio a doppio titolo o “double degree”.
Ad esempio, l’Università di Catania, che ha totalizzato 68 punti nella classifica, nel corso dell’a.a. 2016/2017 (le banche dati Miur non mettono a disposizione il dato relativo all’a.a. 2017/2018), ha avuto solo 474 studenti in partenza e 248 in entrata in tutto. Troppo poco, a fronte di una popolazione studentesca superiore ai 40mila iscritti. Pur essendo più piccola, Palermo, che infatti ottiene 76 punti, è riuscita a far partire più di mille dei suoi studenti nello stesso a.a., mentre ne sono arrivati 346 nel capoluogo di regione. Numeri e distanze simili si riscontrano paragonando gli iscritti stranieri, malgrado Catania abbia all’attivo diversi corsi in inglese e si stia sforzando di promuovere le iscrizioni da parte di studenti anche extra UE.
Certo l’appeal degli atenei del Centro e del Nord è maggiore, tanto che gli studenti del Mezzogiorno sono spesso i primi a trasferirvisi, ma ci sono alcuni punti su cui le università del Sud possono intervenire: potenziare la mobilità in uscita, attraverso maggiori interventi finanziari e un adeguamento dell’offerta formativa che renda più semplice l’individuazione della destinazione scelta per l’Erasmus+ (specie se Erasmus+ studio) e rinvigorire quella in entrata, magari tramite l’adozione di programmi ad hoc in lingua straniera anche in corsi di laurea in italiano, potrebbe essere una prima idea. Un ulteriore problema potrebbe essere infrastrutturale, sia nella rete dei trasporti che in quella dei servizi, ma questo è un ambito su cui le università spesso possono fare poco.
Come anticipato in apertura, è qui che la territorialità incide maggiormente sul posizionamento in classifica. Anche le università che hanno ottenuto ottimi punteggi, come quella della Calabria, seconda a livello nazionale nella classifica dei grandi atenei statali, hanno voti penalizzanti, e, se si fa qualche eccezione, come Napoli Parthenope, con 84 punti, quasi nessuna supera “quota 80”.
“Tra i laureati del 2017 a un anno dal titolo – si legge infatti nel rapporto Almalaurea 2019 – il divario territoriale, pari a 16,5 punti percentuali, si traduce in un tasso di occupazione pari all’81,3% tra i residenti al Nord e al 64,8% tra coloro che risiedono nelle aree meridionali“. Un solco che viene confermato su tutti i gruppi disciplinari e che aumenta il dualismo tra Nord e Sud del Paese.
Può una classifica degli atenei in Italia non tenere conto della condizione occupazionale dei laureati, dato che il lavoro è il naturale sbocco della carriera universitaria? No. Ed esistono classifiche apposite e parallele che tengono delle singole aree didattiche, dove il confronto è diverso. Tuttavia, in particolare al Sud, come sottolinea lo stesso rapporto Svimez dell’anno a cui si fa riferimento, si è ormai di fronte a un circolo di immobilità sociale, che spesso costringe i giovani a cercare nell’emigrazione l’unica via per migliorare le proprie condizioni.
Le migrazioni interne e lo spopolamento dei piccoli centri continuano ad allargare sempre più la forbice tra le due parti del Paese. In particolare, le indagini statistiche dell’Istat prevedono che il Mezzogiorno entro il 2065 potrebbe perdere 5,3 milioni di abitanti, sette punti percentuali in meno rispetto alla popolazione attualmente residente. Per dirla ancora con la Svimez, “il Sud non è più un’area giovane né tanto meno il serbatoio della demografia del resto del paese. Le famiglie fanno sempre meno figli e i giovani se ne vanno; la popolazione invecchia e si riduce”.
Come potranno, da sole, le università meridionali colmare il divario e rallentare l’emorragia di giovani? All’indomani delle dimissioni del ministro per l’Istruzione Lorenzo Fioramonti, che ha lasciato la carica proprio a causa dell’insufficienza di fondi per il suo ministero, e all’alba del nuovo decennio, è questa la domanda da porsi e a cui trovare in fretta una risposta.
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