"Sei fidanzata? Hai intenzione di avere figli?". Sono solo alcune delle domande vietate rivolte alle donne durante i colloqui di lavoro.
Affrontare un colloquio di lavoro non è mai semplice e spesso è richiesta una lunga preparazione. L’invio della candidatura per una posizione aperta è solo l’inizio del processo che porterà il candidato davanti all’addetto delle risorse umane, il quale ha il compito di selezionare il personale.
L’obiettivo del colloquio consiste nel verificare e valutare le competenze professionali, gli studi e gli interessi personali del candidato. Per far ciò il reclutatore dovrà astenersi da eventuali domande inerenti alla vita personale.
Tuttavia capita frequentemente che vengano richieste informazioni sulla propria vita privata, ben poco attinenti con la posizione per la quale ci si è candidati. Le domande rivolte possono risultare così invasive e personali da urtare la propria sensibilità.
Se poi si tratta di candidati di sesso femminile la percentuale di domande discriminatorie, durante un colloquio di lavoro, si innalza notevolmente. I principali argomenti riguardano il credo religioso, la situazione sentimentale, le relazioni con i colleghi, la professione dei genitori o del partner. Tutti dilemmi che agli uomini non vengono posti.
Sono sempre di più le donne giudicate negativamente e scartate durante un colloquio di lavoro perché dichiarano una convivenza con il partner o manifestano il desiderio di diventare in futuro madri. In questi casi, il giudizio dei reclutatori, più che sulla propria carriera professionale, è basato sulla vita privata della candidata.
La ragione di tali domande, molte volte, è quella di capire il grado di dedizione al lavoro che il candidato può assicurare. La propria disponibilità lavorativa può essere compromessa da una vita familiare o affettiva al di fuori del contesto professionale. Tuttavia domande del genere non dovrebbero essere ammesse in sede di colloquio, in quanto considerate lesive della privacy e discriminatorie e, per tali ragioni, vietate dalla legge italiana.
L’art. 27 del Codice delle pari opportunità vieta qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, sia che questo venga esercitato in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma. Il divieto in questione si estende anche ai criteri di selezione e alle condizioni di assunzione, indipendentemente dalle modalità di assunzione e dal settore di attività.
Sono vietate inoltre tutte le forme di discriminazione, dirette e indirette, riguardo lo stato matrimoniale, di famiglia, di gravidanza, di maternità o paternità, effettuate durante meccanismi di preselezione.Nonostante il divieto legislativo, in questo campo c’è poca consapevolezza dei propri diritti.
“Se parliamo di discriminazioni in fase di accesso al lavoro, in Italia, non possiamo fermarci al solo colloquio, che pure è un momento cruciale”, avverte Carolina Pellegrini, Consigliera di Parità della regione Lombardia, impegnata da anni sui casi di discriminazione in ambito lavorativo, circa 70-80 denunciati ogni anno.
“Una prima subdola selezione avviene già nelle inserzioni di ricerca del personale – prosegue la consigliera – quando si declinano le professioni al femminile, oppure si richiede una bella presenza o specifici parametri di peso e altezza.”
Il cammino per abbattere gli stereotipi è ancora lungo. Ma il candidato può rifiutarsi legittimamente di rispondere ad una domanda non funzionale al ruolo per il quale si è proposto e può denunciare eventuali illeciti discriminatori.
La tutela delle pari opportunità sul lavoro in Italia è portata avanti grazie all’attività del Comitato Nazionale di Parità, della Consigliera Nazionale di Parità e della Rete delle Consigliere di Parità. Le Consigliere di Parità agiscono entro le amministrazioni nazionali, regionali e provinciali, con compiti di controllo, ma anche di promozione di azioni positive per garantire l’uguaglianza di genere nella rappresentanza e nelle condizioni di lavoro.
La Consigliera Nazionale si occupa di trattare i casi di discriminazione di genere sul lavoro e della promozione di pari opportunità per lavoratori e lavoratrici, anche mediante la collaborazione con gli organismi di rilevanza nazionale competenti in materie di politiche attive del lavoro.
Il pubblico ufficiale agisce gratuitamente su delega della lavoratrice che ha denunciato la discriminazione di genere. Può convocare il datore di lavoro per verificare i fatti e trovare un eventuale accordo, avviando una procedura detta informale. Tale procedura è spesso preferita per i risultati duraturi e soddisfacenti per entrambe le parti.
Il soggetto denunciante o la Consigliera possono avviare anche una conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro davanti ad una Commissione di conciliazione, per una rapida definizione del conflitto.
Le discriminazioni sessuali possono essere accertate inoltre mediante azioni collettive o individuali. Si dicono individuali quando riguardano un singolo soggetto e sono disciplinate dall’art. 38 del d.lgs. 198/2006.
L’azione individuale di accertamento può essere proposta avanti al Giudice del lavoro o al Tar territorialmente competenti, nel caso si tratti di discriminazione nei confronti di pubblico dipendente con rapporto di lavoro non contrattualizzato. Il ricorso può essere avviato dalla lavoratrice discriminata oppure su sua delega dalla Consigliera di Parità provinciale o regionale territorialmente competente.
L’azione collettiva, invece, può essere proposta solo dal pubblico ufficiale ed è l’unica azione che la Consigliera può esercitare direttamente ed autonomamente, in quanto la legge la individua come soggetto istituzionale rappresentativo dell’interesse generale alla parità. Per tale ragione, la Consigliera può procedere anche se non sono individuati i soggetti lesi e senza che sia effettuata alcuna denuncia.
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