Università meno razziste e violente: frasi e libri vietati dagli studenti

In un grande rovesciamento delle gerarchie, sono gli studenti ad imporre i nuovi codici verbali, gli elenchi delle espressioni considerate fonte di micro-aggressioni, i libri e i comportamenti accusati di "farli stare male". Succede nelle università degli Stati Uniti e non solo.

Se foste a New York e vi dicessero “Lei parla molto bene l’inglese”, con grande probabilità sareste contenti perché pensereste di aver ricevuto un bel complimento. Non la pensano allo stesso modo gli studenti dell’università di Irvin e di altre nove università della California, dove questa espressione è considerata addirittura una “micro-aggressione”. Questo divieto bandito dagli studenti infatti è stato giustificato con il fatto che la frase lascerebbe intendere l’accusa di “non essere un vero americano”, cosa che potrebbe far star male la persona a cui è rivolta.

Gli studenti hanno realizzato delle vere e proprie liste di espressione che, a loro avviso, sarebbero discriminatorie e fonte di malessere. Tra queste si trova l’abitudine di parlare dell’America come “melting pot”: sarebbe una micro-aggressione ai danni di coloro che non vogliono uniformarsi alla cultura americana. Vietate dagli studenti anche espressioni come “l’America è il paese delle opportunità”, perché dire cose simili significherebbe essere irrispettosi nei confronti di quelle persone il cui successo è ostacolato da razzismo, sessismo e omofobia.

Lo scorso aprile, un’associazione di studenti orientali della Brandeis University ha affisso nell’atrio un manifesto con una lista di frasi considerate delle micro-aggressioni: tra queste “Voi siete bravi in matematica” o “Io sono colorblind! Non vedo le diversità razziali!”. Per ironia della sorte, altri studenti americani di origine asiatica, hanno percepito, invece, lo stesso manifesto come una micro-aggressione nei loro confronti, cosa che ha costretto il presidente dell’associazione a scrivere una lettera di scuse. Alla facoltà di Diritto di Harvard, invece, gli studenti hanno manifestato ai loro docenti una bizzarra richiesta: quella di non utilizzare la parola “violare” (sia riferito all’ambito sessuale, sia nel significato di violare la legge), perché suonava come troppo forte e fonte di cattivi stati d’animo. A diffondere la notizia è stato uno dei professori di diritto, Jeannie Suk, che lo ha scritto sul New Yorker.

Una sociologa della Northwestern University, Laura Kipnis è stata messa sotto inchiesta dai suoi stessi studenti, i quali hanno cercato di farla licenziare, per avere scritto un saggio intitolato “Avances indesiderate – la paranoia sessuale imperante nei campus”. Storia simile quella di Keith John Sampson, uno studente-lavoratore, che faceva anche il portinaio della Purdue University, Indiana: il giovane ha rischiato il posto per aver letto in pubblico il libro  “Notre Dame vs the Klan: How the Fighting Irish sconfisse il Ku Klux Klan”. In realtà, questo spiegava come nel 1924 gli irlandesi avevano cattolici di Notre Dame avevano combattuto contro la setta. Lo scandalo del libro, tuttavia, sarebbe  stato legato al fatto che espone in copertina i membri della setta incappucciati: questo bastava a far sentire male gli accusatori. Sampson è stato condannato per “molestie razziali” dall’ufficio Affirmative Action della stessa università, ha evitato il licenziamento solo perché del suo caso si è interessata la stampa e l’università ha finito di ritirare l’accusa.

Ma non è finita qui. Molti studenti hanno descritto come “scatenanti disagio” testi come Le Metamorfosi di Ovidio (violenza sessuale), La signora Dalloway di Virginia Woolf (per “inclinazioni suicide”), Il Grande Gatsby di Fitzgerald per il suo essere discriminatorio e offensivo verso le donne. Tutto questo ha generato un clima in cui i professori stanno cominciando a temere le segnalazioni, i divieti e le manifestazioni dei loro studenti “feriti e offesi”  per frasi banali spesso dette in modo bonario o leggero.

Come si giustificano gli studenti? Spesso ciò che si verifica è che gli studenti impongono, senza dare delle giustificazioni, facendo appello al loro essere feriti per motivi medici o mentali: per loro si tratta di frasi, libri o comportamenti che, semplicemente, aggravano la loro ansia e depressione o che danneggiano la loro salute mentale. La caratteristica principale di questa nuova forma di censura studentesca, infatti, è la sua medicalizzazione. Gli studenti non si preoccupano di motivare i loro divieti attraverso delle idee, filosofie o progetti, lo fanno e basta.

Ma questo atteggiamento serve davvero a rendere le università meno razziste o meno violente e gli studenti più sani? Quello che si può vedere è che, in realtà, tra il 2009 e il 2015, le domande di visite di soccorso psichiatrico è cresciuta cinque volte più velocemente rispetto al numero degli iscritti. Nel 2017, inoltre, la percentuale di depressione è aumentata notevolmente rispetto ai tre anni precedenti e la percentuale di giovani che hanno avuto ideazioni di suicidio è passato dal 6,8 per cento del 2008 al 10,5%. In altre parole, gli studenti spesso diventano essi stessi vittima degli inferni che loro stessi creano.

Si tratta di una rivoluzione culturale che si pone agli antipodi rispetto a quella del ’68: al grido “libertà, libertà” si è sostituito un paranoico inneggiare ai divieti contro ciò che offende una “sensibilità” che sembra essere sempre maggiore. In questo panorama, ha avuto via via luogo una vera e propria inversione delle gerarchie, in cui gli adulti sembrano sempre più schiacciati dalle pretese di quegli adolescenti e di quei giovani che hanno ereditato dai sessantottisti grande libertà e possibilità di imporsi.

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