Nel 2018 lo scontro tra il Politecnico di Milano e l'Accademia della Crusca si infiamma. L'uso della lingua inglese come prima lingua nei corsi di laurea magistrale e dottorati è una minaccia o un passo in avanti?
Parliamo tutti l’inglese, più o meno. C’è chi incespica su parole dalla pronuncia maccheronica e una grammatica approssimativa, ma c’è anche chi dell’inglese ha fatto – per questioni scolastiche o lavorative – la lingua più utilizzata nel corso della giornata. Perché, che ci piaccia o meno, è chiara la direzione che ha preso il mondo dal dopoguerra in poi.
Sono circa 360 milioni i madrelingua inglese, con circa un terzo degli europei che dichiara di averla adottata come seconda lingua. La sua diffusione globale e la dominazione nel campo del web e della tecnologia l’ha resa de facto ciò che qualcuno chiama la lingua franca dell’era moderna. Eppure continuiamo a trascurarla nel corso degli anni di formazione della scuola dell’obbligo, concedendo al suo studio un limitato numero di ore settimanali o affidandone l’insegnamento a persone non sempre all’altezza del compito.
Proviamo a considerare adesso il risultato di un simile comportamento nel lungo termine. Uno studente che ha scelto di fare il suo ingresso in un settore specialistico altamente competitivo a livello internazionale, come fisica o ingegneria, abbandona la sua zona di conforto per ritrovarsi schiacciato tra una nuova professione e delle pesantissime barriere linguistiche. Sì, perché molti dei suoi competitor europei hanno avuto la possibilità di studiare quegli stessi argomenti in lingua inglese; questo non li rende in automatico più preparati o più capaci, ma dà loro un evidente vantaggio.
In moltissimi paesi dell’Europa, infatti, la differenza tra bachelor degree (simili alle nostre triennali) e master degree (simili alle magistrali) non è solo data dalla durata del percorso di studi ma anche dalla notevole apertura all’internazionalizzazione. Non si limitano a dare nozioni agli studenti: li preparano alla dura competizione che troveranno all’ingresso nel mondo del lavoro.
È stato il Politecnico di Milano ad avere il coraggio di muovere il primo passo verso la “piscina dei grandi”, proponendo nel 2012 di erogare corsi di laurea magistrale e dottorati unicamente in lingua inglese. Con più di 11 mila studenti nei due cicli di studi interessati (5 mila stranieri) la scelta non avrebbe dovuto incontrare alcun tipo di obiezione – e qui il condizionale è d’obbligo. Lo è perché non si sono fatte aspettare le proteste di alcuni docenti, accolte dal Tar, che hanno costretto il Politecnico a optare per un numero ridotto di corsi magistrali e dottorati in lingua inglese, offrendone qualcuno in italiano. La proporzione (27 a 8) rappresenta comunque uno squilibrio che è subito stato evidenziato dal Consiglio di Stato che adesso chiede un intervento. Appoggiato dall’Accademia della Crusca.
Qualcuno ha tirato in mezzo il rischio di ledere il diritto allo studio o i 100 docenti che hanno fatto ricorso al Tar, puntando a preservare lo status quo più degli studenti che si sostiene di avere a cuore. Si sacrifica il futuro in onore di un passato che viene tenuto assieme da rattoppi approssimativi, gli stessi che rendono le università italiane tra le ultime in Europa.
“Immaginate i danni che avrebbe il tessuto sociale del nostro Paese, di cui l’idioma è componente fondamentale. La cultura è un patrimonio di diversità, qui l’errore più grande è voler far credere che ci sia un’unica strada. E un’unica lingua”, l’attacco che arriva dalla Crusca. Ancora una volta, il popolo italiano si trova a dover decidere tra i due fronti di una crociata, schierarsi a favore del progresso o combatterlo a spada tratta, esibendo lo scudo della preservazione di qualcosa che, in realtà, non è mai stata in pericolo, non a questi livelli.
La lingua italiana non sparirà soltanto perché qualcuno ha deciso di aprirsi al mondo, con tutte le sue brutture, certo, ma anche tante bellezze. Se vogliamo davvero garantire la sopravvivenza della lingua italiana e della nostra cultura nel mondo, dobbiamo puntare sulle scuole primarie, dobbiamo spingere i giovani alla lettura e alla scrittura, a girare per i musei, imparare e portare tutto con sé, all’estero, dove chiunque può intromettersi nella conversazione. Basta solo conoscerne la lingua.
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