Napoli, Messina, Palermo. Sono solo alcune delle città coinvolte nella scia di suicidi di giovani studenti, che decidono di compiere un gesto estremo nel giorno della presunta laurea.
I casi di suicidio nelle università italiane fanno riflettere. L’ultimo in ordine di tempo è avvenuto a Napoli, dove Giada Di Filippo, una ragazza di 25 anni si è gettata dal tetto del suo ateneo, nel giorno della sua presunta laurea.
Non si tratta di episodi isolati, è uno scenario che purtroppo riguarda anche gli studenti degli atenei siciliani. Lo scorso 28 marzo, a Messina, una ragazza ha tentato il suicidio lanciandosi dal quarto piano di una palazzina e, andando oltre lo Stretto, un altro caso è stato quello del giovane 26enne Maurilio Masi, che all’Università Roma Tre si è sparato un colpo in testa di fronte ai suoi colleghi di studio: aveva dato solo 3 esami su 28.
È inevitabile chiedersi il perché di questi tragici gesti, molto spesso dovuti al mancato completamente del percorso di studio. Forse l’eccessiva pressione di amici e partenti, o quella della società, che porta i giovani a misurarsi sempre più spesso con tempistiche troppo strette e con un mondo del lavoro quasi saturo. Insomma, raggiungere la laurea è sì un traguardo, ma è anche il primo passo verso un percorso tutto in salita che porta a misurarsi con diversi problemi, soprattutto economici. A ciò, potrebbe aggiungersi il timore di recare una delusione ai genitori, che hanno investito in aspettative e denaro sulla carriera universitaria dei figli.
Diverso è, invece, il caso del giovane dottorando in filosofia del linguaggio Norman Zarcone, volato dal settimo piano della facoltà di Lettere dell’Università di Palermo. Laureato con 110 e lode stava ormai per completare il dottorato, ottenuto senza l’ausilio della borsa di studio. Come denunciato dal padre, Norman con il suo drammatico gesto ha voluto lanciare un messaggio contro un sistema universitario corrotto e privo di meritocrazia, che non permette ai giovani più brillanti di raggiungere i propri obiettivi.
Anche i docenti spesso si interrogano su queste tragiche situazioni, come il professore Guido Saraceni: “L’Università non è una gara, non serve per dare soddisfazione alle persone che ci circondano, non è una affannosa corsa ad ostacoli verso il lavoro. Studiare significa seguire la propria intima vocazione”. Una lettura degli eventi diversa, che ci pone di fronte alla necessità di metterci in discussione, di sbagliare e fallire e perché no, rincominciare. L’università insomma, deve essere colta come un percorso formativo libero e stimolante; mai come una scelta condizionata dalle pressioni sociali, pena la sconfitta di una intera comunità di fronte alla morte agghiacciante di un altro giovane studente.
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